0

Graphìe n.107 – In margine ai labirinti di Emilio Villa

Vi riporto il mio articolo In margine ai labirinti di Emilio Villa pubblicato sul numero 107 della rivista Graphìe

 

 

In margine ai labirinti di Emilio Villa

di Donatella Bisutti

 

È stato presentato nei giorni scorsi alla Biblioteca Braidense di Milano il ponderoso volume di Gabriella Cinti dedicato alla figura e all’opera di Emilio Villa e in particolare all’analisi di alcuni Labirinti inediti, riprodotti in originale, dal titolo All’originedel divenire: il labirinto dei Labirinti di Emilio Villa, edito da Mimesis. Un lavoro di grandissimo valore scientifico, nato da una passione autentica e che ritengo rimarrà fondamentale per lo studio di una figura sorprendente ed elusiva del nostro Novecento. Lo studio della Cinti è un’opera germinativa, da cui si ricavano molteplici stimoli e mi ha suggerito alcune considerazioni che riporto qui.

Quello di Emilio Villa è un esito estremo di quella disgregazione del significato e al tempo stesso di quel fallimento della parola poetica in quanto inseguimento dell’Assoluto continuamente perseguito e continuamente eluso e votato allo scacco, che segna la cultura europea del Novecento a partire da Mallarmé e che trova una delle sue massime espressioni proprio in Francia con autori come Blanchot, Derrida, Artaud, Roland Barthes, per citarne solo alcuni, e in particolare nella voce di un poeta di origine egiziana ma naturalizzato francese, Edmond Jabès, che ho avuto la ventura di introdurre per la prima volta in Italia, prima sull’Almanacco dello Specchio di Mondadori che allora, diretto da Marco Forti e Giuseppe Pontiggia, rappresentava un riferimento imprescindibile nell’ambito della poesia, e successivamente in volume per lo “Specchio” Mondadoriano.

Una cultura francese che praticava lamise en abyme, secondo un termine coniato da Gide, e non è un caso che Villa abbia trascurato la lingua italiana per lui troppo piana, squadrata e univoca per quella francese più propensa a frantumarsi nel suono e a moltiplicarsi a cascata nei calembours, il che non è estraneo al fatto che nel Novecento la Francia sia stata la patria ideale della sperimentazione linguistica di cui Emilio

Villa si può ben considerare in Italia il massimo esponente.

In particolare ritengo che ci sia una forte rispondenza fra Villa e Jabès perché entrambi hanno cercato un punto di contatto fra una sapienza antichissima – quella della Kabbala ebraica per Jabès e quella delle antiche culture sumeriche per Villa – e gli strumenti della moderna linguistica e dello strutturalismo. Entrambi hanno messo in atto una convergenza fra questi due piani per attingere a un Assoluto che si rivela tuttavia inattingibile, in una continua interrogazione, continuamente elusa, teorizzata da Jabès già nel titolo del suo smisurato Livre des questions. Entrambi, Villa e Jabès, hanno privilegiato l’interrogazione e dato risalto all’impossibilità della risposta. Entrambi hanno fatto del Labirinto, che Jabès ha chiamato Erranza, la somma metafora di una ricerca impossibile.

Il tentativo, che ogni volta conduce al fallimento, di Emilio Villa di uscire dal Labirinto è l’Erranza stessa di Jabès nel Nulla del deserto e –visto con l’occhio della realtà che stiamo vivendo oggi – può essere letto come un tentativo emblematico di una cultura europea, fino ad allora egemonica, che nel Novecento è giunta alla sua estenuazione, è giunta in qualche modo al suo capolinea.

Un’Europa che, dopo aver affermato per secoli un’istanza di Assoluto e una corrispondenza fra pensiero e realtà, improvvisamente, nel corso di due guerre mondiali, ha divorato se stessa e i suoi figli come nel mito di Saturno, riempiendo di ossa terreni altrimenti destinati alle culture. Una Europa che si era impegnata due millenni fa a distruggere la polisemia fluttuante del Mito per mettere al suo posto l’Assoluto coercitivo del Dogma, per poi sostituire l’assolutismo monoteistico con quello altrettanto rigido e coercitivo della Ragione e successivamente della Scienza e del Progresso.

Il Novecento provoca la frantumazione dell’Assoluto, del Dogma, del Logos, una frantumazione che fa posto tuttavia non a un senso di liberazione ma a una nostalgia, a una malinconia che Gabriella Cinti ha ben individuato nell’opera di Villa. Una cacciata dall’Eden, anche se questa volta si tratta dell’Eden della Ragione: questo è stato il Novecento.

Emilio Villa vuole compiere un cammino à rebours, tornando alle origini, a una fonte primigenia in cui il linguaggio, soggetto a una frantumazione senza fine nei suoi elementi risalenti all’indietro verso un tempo mitico, possa alla fine ricomporsi in un Vuoto che è il Nulla che tutto contiene, da cui tutto germina. E a questo fine deve distruggere la Parola in quanto Significato, la parola in quanto presa sulla realtà, fonte di sicurezza e di dominio per l’uomo. Un linguaggio di Significanti al di là o al di qua di qualsiasi significato e in perpetuo divenire e perpetua trasformazione è il sogno che Emilio Villa persegue e che gli fa sanguinare le mani e la penna. Perché questa sua quete si avvera essere solo un aggirarsi nel Labirinto: proprio attraverso questa ricerca che è avventura della parola, la fede votata per secoli dalla cultura europea all’Assoluto si dimostra alla fine ingresso in un labirinto che ha solo due alternative: o un’uscita che è in realtà un ritrovarsi a un punto iniziale o l’incontro al centro del labirinto stesso con il Minotauro, ovvero la mostruosità di un’animalità irrisolta che perseguita l’uomo occidentale.

E così anche l’Europa in questi decenni ha finito per essere divorata da quel Minotauro rappresentato da due guerre mondiali che nonostante pseudo vittorie l’hanno con-al decadimento e alla fine di qualsiasi certezza, ma, non paga della lezione, sembra volersi accingere a una nuova guerra. Guerra non certo eroica ma che fa in anticipo i conti degli investimenti sui cadaveri.

L’Europa – leggendo l’opera di Emilio Villa come una grande metafora, ma metafora è sempre l’arte rispetto alla vita – non può tornare all’infanzia, a quell’infanzia dell’origine che Emilio Villa ha cercato di esplorare risalendo verso la sorgente attraverso gli etimi. L’Europa non può tornare a essere la fanciulla pura non ancora violata da Zeus. Perché è solo lo sguardo dell’infanzia – uno sguardo che fa coincidere perfettamente soggetto e oggetto – che può costituire la risposta alla ricerca di Emilio Villa della parola trou, quella che permette il passaggio, della parola-cosa, della parola delle origini, della parola in cui tutto ha insieme inizio e fine, il proton eschaton come egli lo chiama.

Per il bambino la parola – che egli scopre mano a mano cha va scoprendo la realtà, la parola che egli mangia come la parola manducata di Marcel Jousse, è per lui tutt’uno con la cosa, è la cosa stessa che egli incorpora. In questa parola soggetto e oggetto coincidono: perché egli stesso è la parola. La sua parola è perciò magica, come quella degli antichi sciamani che si confondeva con i versi degli uccelli, recupera la capacità di dar forma alla realtà, anzi di animarla, di suscitarla, divenendo pura energia, tutt’uno con l’energia che costituisce la materia, non massa immobile ma vorticare di atomi, si fa essa stessa materia mentre la materia attraverso la parola diviene psiché e così, solo così recupera l’innocenza e la totalità primigenia.

Ma questa origine posta all’inizio della vita di ogni uomo si perde man mano che egli si avvicina alla sua fine perciò proton e eschaton, i due termini che Emilio Villa si sforza di mettere insieme, non possono coincidere. L’uomo giunge alla fine della sua vita avendo perduto tutta la sua innocenza. Ma cos’è questa innocenza dello sguardo del bambino, cos’è questo suo manducare la parola? È il suo vivere la realtà senza il distacco creato dalla coscienza, dalla consapevolezza, che lo pone al di fuori, che è immediata separatezza, frattura fra parola e realtà. Il bambino coincide con la totalità del suo essere, con la totalità della realtà e la totalità dell’istante che sta vivendo: in lui il tempo è passato presente e futuro indifferenziati e compresenti: egli è tutt’uno con la realtà come prima di venire al mondo era un tutt’uno indifferenziato con la madre. È l’Aion dei culti misterici di Alessandria d’Egitto e di Emilio Villa. Che un pensiero in cerca di consapevolezza possa cogliere l’assoluto della totale inconsapevolezza primigenia: questo è il paradosso impraticabile del Labirinto di Villa e del labirinto in cui ci aggiriamo noi tutti, mentre il Minotauro mostruoso ci attende per balzarci addosso.

Il bambino coincide con tutto il suo essere con l’istante e questo istante come affermava Montale è l’Assoluto. Ma l’allontanamento critico, il pensiero del soggetto in quanto soggetto, perde la valenza vitale, emotiva, mitica della parola. L’uscita dall’infanzia la perde per sempre. Ecco quindi perché l’uomo vive questo paradosso di camminare con il capo volto all’indietro verso un eden perduto. E se così cammina ogni singolo uomo, così cammina anche la nostra stanca logora civiltà che si abbevera ormai ad acque virtuali.

Quella della Parola allora non può che essere quell’eterna nostalgia che Gabriella Cinti acutamente rintraccia nell’opera di Emilio Villa.

Ma bisogna anche dire che il filosofo rumeno Lucian Blaga, morto nel 1961, poco o niente conosciuto in Italia, cui è intitolata l’Università di Sibiu, nella sua Trilogia della Conoscenza, che nessuno ha ancora mai tradotto in italiano, afferma che a un defunto dogma della Verità Assoluta debba sostituirsi il Mistero e la sua necessità come nuovo dogma. E invece di cercare di avvicinarci al Mistero tentando di penetrarlo, dobbiamo preservarlo perché solo preservando la fede nell’inattingibilità del Mistero, senza volerlo disvelare, infrangere, solo così possiamo trovare il senso della nostra vita. E così anche la parola della poesia io credo che debba alludere al Mistero ed esserne custode. Solo così può tornare a essere parola totale, parolacosa, parola creatrice, e darci un brivido di Assoluto come ce lo dà la parola di Saffo.

 

Copertina e colophon GRAPHIE n107 Elogio del Paesaggio
0

Angela Passarello

“Poema Rupe”

Il libro, edizione New Press, 2022

Angela Passarello è nata ad Agrigento e vive e lavora a Milano. È stata cofondatrice della rivista “Il Monte Analogo”. Ha collaborato con “La Mosca” di Milano. Ha pubblicato la raccolta di racconti Asina Pazza (Greco E Greco, Milano 1997), una raccolta di poesie La carne dell’Angelo (ed. Joker, Novi Ligure 2002), le prose poetiche “Ananta delle voci bianche” (Quaderni di Correnti, Crema 2008). “Pani scrittu” (edizioni Pulcino Elefante, 2015, Osnago). È presente nelle antologie: Versi Diversi (edizioni Melusine, Milano 1998), Poeti per Milano (Vienne¬pierre, Milano 1998), Rane e L’Uomo, Il Pesce e L’Elefante per I Quaderni di Correnti (Crema 2007). È artista visiva e parte della sua opera pittorica è stata esposta, nel 2019, alle Vetrine della Libreria delle Donne di Milano e alla Fondazione Mudima; nel 2021 a Palazzo Zanardi Landi di Guardamiglio (LO).

 

Angela Passarello – Foto da “L’ombra delle parole – Rivista letteraria internazionale”

 

Il cuore di Poema Rupe (New Press Edizioni, 2022, Lomazzo), ultimo lavoro di Angela Passarello, è come osserva Angelo Lumelli nella sua introduzione, l’anomalia. L’anomalia del linguaggio, ricco di analogismi e di immagini sempre vicine alla terra. Un’anomalia che deriva dalla resistenza della materia alla nostra intrusione, così come il verso e la parola resistono al dilagare della banalità dell’uomo.

Così, scrive Lumelli, “La Rupe ha visto tutto e ciò e rivendica la propria natura di luogo […] un appello alla lingua che è sempre fuori luogo – e che fa di questo esilio la propria forza, il vanto di essere sopra-luogo, esultante predizione”. Ma l’esilio di Angela Passarello non significa mai distanza o distacco: è un punto di vista che si colloca al centro di ciò che vorticosamente accade e lo osserva, trasformandolo in linguaggio. La forza del Poema Rupe è nel magma dei significanti, dove la modernità si accumula e si mescola con archetipi della natura. La tecnologia è già vecchia e sorpassata e si deposita su una terra che nel suo incedere assorbe ogni velleitario tentativo umano.

La Rupe non è semplicemente l’archetipo dell’origine, della Sicilia a cui la Passarello ritorna sempre come per contrasto al quotidiano della Milano-modernità, ma è l’accumularsi di esperienze antiche, una stratificazione in cui non solo affondano le radici ma intorno al quale si affolla il presente.

Intorno alla Rupe, niente è incontaminato, ma anche l’umano è un dettaglio, un transeunte che può solo lasciare tracce. E questo sono i versi della Passarello: tracce, che si imprimono, e diventano essi stessi rupe. Tracce che si stagliano intrise di una grecità mediterranea e che si connettono con la dimensione mitica, e quindi autentica, della parola.

Una poesia che nella sua atemporalità è sempre anche una poesia civile, che non dimentica i naufraghi dell’indifferenza e, anzi, li eleva, attribuendogli un senso e restituendogli l’umanità del riconoscimento. In questo senso la voce di Angela Passarello è una voce carsica e persistente e, soprattutto, mai indifferente. E a cui è impossibile rimanere indifferenti.

La voce anomala e resistente di Angela Passarello non è mai indifferente come possiamo leggere qui di seguito, in questi versi estratti dal libro:

 

Rupe martoriata da costrutti

afferravita

di organi e di apparati

di viventi ignari delle alterazioni

*

Rupe dei poveri rognosi dormicane

dall’occhio querulo attenti alba

su scorze di mandorle sgusciate

tra spuntoni degli alberi del violo

 

Rupe dei nulla facenti guardacoste

riluttanti a imprese salvavita

di barconi rovesciati

con i morti trascinati sulle maree

*

la ragazza scooter andava

con lo zainetto sulle spalle

cantando sulla punta dirupata

dove l’albero secco ergeva fatiche

 

la notte dell’eclissi di luna rideva

bevendo heineken rideva

la ragazza scooter fra i corpi

sul giaciglio di foglia ammaccata

 

nessuna traccia veniva segnata

sul foglio bianco

della ragazza scooter

ombre soltanto nel giaciglio

0

“Xenia”: il numero 2/2022 tra impegno civile e poeti liguri

La rivista “Xenia – Trimestrale di letteratura e cultura”, curata dall’Associazione Genova Lettere, è una lettura preziosa per gli appassionati di poesia e non solo. La ricchezza degli approfondimenti dà la possibilità di esplorare tematiche non banali, e il valore delle poesie pubblicate offre l’occasione di scoprire autrici ed autori diversi e interessanti.

 

Nel secondo numero di questo 2022, che ha un poco accompagnato la mia estate, è davvero suggestivo il saggio di Rosa Elisa Giangoia “I fiori per il dolore e per il ricordo”, dedicato al ruolo del crisantemo nella poesia italiana del novecento, descrivendo la sua parabola da fiore decorativo a fiore del lutto. Un intervento colto e sorprendente.

 

Giustamente viene dato molto spazio ai poeti genovesi e liguri, ed ho molto apprezzato gli interventi di Eugenio Villani dedicato a Montale – “La folgorazione di Arsenio” –  e di Massimo Morasso a Caproni – “Su Giorgio Caproni -, oltre al doveroso approfondimento di Davide Puccini dedicato al Meridiano di Camillo Sbarbaro.

 

Tra i testi colpiscono le tre poesie civili di Andrea Guiati dolorosamente ispirate dall’invasione dell’Ucraina e l’affiancamento della traduzione di Gilberto Sacerdoti Pied Beauty – Bellezza confusa di Gerard Manley Hopkins a “Hopkins e Adriatico” scritta dallo stesso Sacerdoti e corredata da una sua bella nota esplicativa. Ricordo che nella redazione della rivista figurano oltre a Rosa Elisa Giangoia anche Milena Buzzoni, Vittorio Coletti, Giuseppe Conte, Goffredo D’Aste, Giuliana Rovetta e Stefano Verdino.

 

 

Il sommario di questo numero:

0

Lucetta Frisa

“Ho tante albe da nascere”

 

 

Lucetta Frisa, genovese, è poeta, scrittrice, traduttrice, lettrice a voce alta. Tra i suoi libri di poesia: La follia dei morti (Campanotto, 1993),  Se fossimo immortali (Joker 2006), Ritorno alla spiaggia (La Vita Felice, 2009), L’emozione dell’aria (CFR, 2012), Sonetti dolenti e balordi (CFR, 2013). Ha tradotto, tra gli altri, Henri Michaux, Bernard Noël, Alain Borne. Suoi testi sono stati pubblicati in riviste (Poesia, Nuova Corrente, Nuova Prosa, La Clessidra, La mosca di Milano, L’immaginazione) e antologie (Il pensiero dominante, Genova in versi, Trent’anni di Novecento, Altramarea, Poems from Liguria. Suoi racconti per ragazzi sono apparsi sul quotidiano Avvenire. In prosa pubblica Sulle tracce dei cardellini (Joker, 2009) e La Torre della luna nera (Puntoacapo, 2012). In coppia con Marco Ercolani scrive l’epistolario fantastico Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000), Anime strane (ibidem, 2006) Sento le voci (La Vita Felice, 2009; tradotti anche in francese da S.Durbec per Etats civils, 2011), e il Muro dove volano gli uccelli (Edizioni l’Arcolaio, 2013). Finalista in diversi premi letterari, ha vinto il Lerici-Pea (2005) per l’Inedito e l’Astrolabio 2011 della critica per la sua opera complessiva. Nel 2016 raccoglie, per puntoacapo, un’antologia della sua opera poetica: “Nell’intimo del mondo. Poesie 1970-2015” (finalista Premio Camaiore 2017). Per lo stesso editore, nel 2020, esce “Cronache di estinzioni”.

Sito web: www.lucettafrisa.it

 

 

Ho tante albe da nascere” (puntoacapo Editrice, Pasturana, 2022) è una raccolta poetica in cui, come dice Luigi Cannillo nella sua introduzione “L’alba, o meglio, le albe di Lucetta Frisa ricordano un’aurora boreale, per lo stretto rapporto tra notte, luce e colore, per le immagini in movimento a cui danno origine e per come possiamo percepire quei segni come messaggio di un altrove”. Vera protagonista dei versi dell’autrice è la sorpresa, la ricerca della meraviglia di quello che si deve ancora scoprire: l’alba non è solo un inizio, ma la promessa dell’inatteso. Così sono spesso protagonisti i bambini e gli animali, immuni dall’assuefazione dell’età adulta. Una raccolta che si muove nello spazio – le Dolomiti, Portofino – e nel tempo, con una particolare attenzione al sonno “da cui origina anche la scrittura, vissuta e agita come componente esistenziale della vita: come testimonianza, cronaca, ritmo, creazione di spazi verbalizzati con la consapevolezza di una responsabilità della parola che si accentua a comprendere tutti questi piani espressivi”. Una parola che per trattenere, scivola sulle cose.

 

Oggi

non penso a nulla

solo mi dico

è l’alba

voglio tenerla stretta a me

come un talismano.

 

Un bambino mi chiede

l’alba

che cos’è?

Adesso

guarda e respiro adesso

la conoscerai di notte

quando non c’è.

 

*

 

Se camminare è scrivere

se scrivere è camminare

abbiamo raggiunto le vette

di tutti i monti:

(era il mio sogno di bambina).

 

*

 

Il mistero è la fiamma ardente della materia.

guardo le nuvole

si tocca lo spessore della terra

guardando la terra come nuvola

sentiamo il legame

a un unico cerchio inconcluso

che più si apre

e più ci inabissa.

0

Pietro Berra

Su questa pietra – Nuove poesie e visioni dalla quarantena

Pietro Berra, nato a Como nel 1975, giornalista, è responsabile de L’Ordine, supplemento culturale domenicale dei quotidiani “La Provincia di Como” e “La provincia di Sondrio”.

 

Ha collaborato con i settimanali nazionali “Diario”, “Panorama” e “Oggi” e pubblicato 22 volumi tra poesia, narrativa e saggistica. Come poeta è stato tradotto in inglese, spagnolo, rumeno, polacco e bulgaro.

 

Collabora con festival letterari e cinematografici, due dei quali ha contribuito a fondare, ParoLario e Lake Como Film Festival.  Coordina l’organizzazione del premio internazionale di letteratura “Alda Merini” e presiede l’associazione “Sentiero dei sogni”, con la quale promuove progetti legati alla scoperta e alla valorizzazione dei territori attraverso la narrazione, tra cui l’evento periodico delle Passeggiate Creative.

 

Con i Quaderni del Bardo ha pubblicato “Una historia de antipodas” (2015); “Atlante salentino, Geografie poetiche di una terra estrema” (2018) e “L’indifferenza del cinghiale. Poesie e visioni dalla quarantena” (2020). Con Alcide Gallani ha ideato e prodotto la serie “Poesie in scatola”, testi poetici in scatole di porcellana dipinte a mano.

Il suo sito è www.pietroberra.com

 

 

 

Nel 2020 Pietro Berra pubblicò “L’indifferenze del Cinghiale – Poesie e visioni dalla quarantena”, in cui i testi scritti durante il lockdown erano accompagnati da bellissime foto sue e della moglie Mirna e in cui si rivelava una volta di più la sua acuta sensibilità nei confronti del mondo naturale e la sua passione etica. “Su questa pietra”, suo ultimo libro, ne è l’ideale continuazione, che arricchisce ancora di più l’immagine di un poeta e di uno scrittore amorosamente legato al territorio al punto da essere diventato ormai una figura imprescindibile nell’ambito lariano, ma anche aperto a una dimensione che travalica ogni particolarità affondando le sue radici nell’animo umano.

Sono poesie figlie dell’isolamento imposto dalla pandemia e da quel ritorno alla libertà a lentissimo rilascio che ha portato Pietro Berra a tornare nei boschi intorno a Como per sentire le voci, ma se nella prima raccolta prevalevano le voci degli alberi e degli animali, in questa “a prevalere sembra essere la voce dei sassi”. Le fotografie, di cui alcuni versi sono il commento intimo, sono scattate dallo stesso Pietro Berra, da suo figlio Leonardo, Paolo Arias e, ancora, da Mirna Ortiz Lopez.

Parole e immagini sgorgano dalla stessa illuminazione e, come dice Stefano Donno nella sua nota introduttiva: “Sono tante, troppe, le cose che vorresti dire dopo aver letto un’opera densa, compatta, costruita con il metodo della speranza e del dono. Credo che una delle ragioni principali della forza dei versi di Pietro Berra sia la sua limpidezza, o meglio la sua claritas, che rende ogni parola, ogni sintagma, il ritmo stesso di ogni componimento pieno di luce. Una luce interiore che cattura il lettore, sino alle radici dell’anima, frutto e risultato di una sedimentazione di anni a anni di lavoro, di cesello, sulla scrittura”. Un’opera che si legge, si guarda, si ascolta.

 

 

VI

Più silenzio, più bosco, più buio.

Di tutto questo ho bisogno

per rivedere le stelle

per sentire la mia voce

interiore. Lo confesso,

la movida mi spaventa

più del lockdown

mi fa sentire più estraneo

a questo mondo, o almeno,

alla maggioranza dei suoi abitanti

che non sono gli uomini.

 

 

 

XII

Vi vedo tutti, amici, qui sulla terrazza

attorno alla tavola coperta di neve

imbandita dai nostri sogni

che avevamo dimenticato al risveglio

a che ora nel silenzio della coscienza

o forse solo della televisione

sono tornati a visitarci.

A turno ci alziamo per dire una poesia.

I fiocchi cadono sulle parole

le scolpiscono con una precisione

che non appartiene a questo mondo.

Ci scioglieremo alla pioggia del pomeriggio

ritorneremo alla terra, ad aspettare

una nuova primavera.

1

Alessandra Corbetta

“Estate Corsara”

Alessandra Corbetta, nata a Erba nel 1988,  è dottore di ricerca in Sociologia della Comunicazione e dei Media e lavora come Adjunct Professor e Teaching Assistant presso LIUC – Università Cattaneo. Ha conseguito un Master in Digital Communication e uno in Storytelling.  Ha fondato e dirige il blog Alma Poesia (www.almapoesia.it), progetto interamente dedicato al linguaggio poetico italiano e internazionale, con il quale ha anche curato la pubblicazione del volume “Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete” (Puntoacapo Editrice 2021). Collabora con il blog spagnolo di letteratura e poesia Vuela Palabra, scrive per il giornale online Gli Stati Generali e per Universo Poesia – Strisciarossa; per Rete55 conduce la rubrica “Poetando sul sofà”, dedicata a grandi autori della poesia italiana. Ha vinto e ricevuto segnalazioni di merito a diversi concorsi poetici; sue poesie sono presenti in varie antologie e tradotte anche su riviste straniere. Prima di “Estate corsara” la sua ultima opera in versi è “Corpo della Gioventù” (Puntoeacapo Editrice, 2019, mentre quella saggistica è “Corpi in Rete. Rappresentazioni del sé tra visualità e racconto” (Libreria Universitaria, 2021). Per Puntoacapo Editrice dirige la collana di poesia per opere prime Controcorrente.

 

Tutta la sua attività è consultabile sul sito www.alessandracorbetta.net.

 

 

Nella mia estate una delle letture a cui mi sono dedicata è stata “L’estate Corsara” di Alessandra Corbetta (Puntoeacapo Editrice, 2022). La stagione che dà il titolo alla raccolta è, nelle parole della nota di Marco Sonzogni “un’estate corsara che non aspetta – e non perdona”. Divisa in tre sezioni – Durante, Prima, Dopo – l’opera è il racconto di un amore finito, che viene rivissuto e ripercorso per permettere all’autrice di ritrovarsi. L’estate diventa quindi la stagione del passaggio a una consapevolezza nuova e a una dimensione più adulta, che si può percepire in versi che hanno l’atmosfera di un settembre interiore. Ad Alessandra Corbetta piace spiazzare il lettore, a partire da quel corsara che può far pensare a Pasolini e invece è un riferimento al gruppo musicale Baustelle. È un libro in cui i luoghi, i treni e le stagioni sono il deposito della memoria da cui sgorgano parole che compongono “una dichiarazione d’amore precisa e potente. A chi? A cosa? Per saperlo dobbiamo accettare di essere trafitti da una freccia indelebile e seguirla”, come dice ancora Sonzogni.

 

Bacà

Un libro giallo in mano per schivare lo sguardo

di chi ha provato a incrociarti

tra treno e banchina perché leggere – pensi –

è fare stare tutto in una riga, evitare

gli strappi di chi piange. Dritto e distratto

neghi la paura di un saluto perché – vuoi convincermi –

scrivere è una briciola di non-vissuto

 

Ma tu

Amore mio mi manchi

scritto sopra il muro – ma

non era una risposta.

Rimentto la mano in tasca,

tengo Cattolica stretta

come un nuovo talismano.

Non ricordo se ti ho detto che

Vivevo sulla ruota panoramica,

con i piedi penzoloni verso

piazza del Tramonto.

La panchina lo sapeva

Che ai tuoi occhi, alla tua pelle,

è cambiato tutto quanto – tu

altro giro, rivoluzione dove ero

ancora io, per sempre

una ragazza

1

Antologia a cura di Rosa Elisa Giangoia e Franco Zangrilli

“New York – Rinascimento postmoderno. Poesie”

 

Testi di: Massimo Bacigalupo, Luigi Ballerini, Milena Buzzoni, Eny Di iorio, Rosa Elisa Giangoia, Andrea Guiati, Massimo Mandolini Pesaresi, Mario Moroni, Mario Andrea Rigoni, Franco Zangrilli

 

Sono dieci le autrici e gli autori presenti in questa raccolta dedicata a New York. Dieci voci la cui biografia è giustamente posta a chiusa del volume edito dalla genovese De Ferrari. Dieci poeti che, come recita la quarta di copertina “interpretano New York nel fascino e nelle contraddizioni della sua modernità: alcuni vi abitano, altri vi sono vissuti, qualcuno l’ha solo visitata”. Ma chi di noi non ha mai visto o letto nulla di New York anche se non  c’è mai stato? Perché come dice in un suo verso Franco Zangrilli, New York è la Firenze rinascimentale dell’attuale secolo. Un concetto richiamato anche nel titolo della raccolta, dove l’aggettivo postmoderno verrà espresso, nei versi, dalla città stessa.

 

Ma i testi non cadono mai nell’agiografia: la città americana, capitale del capitalismo finanziario, sogno e incubo di molti emigranti, è descritta più nelle sue contraddizioni che nelle sue mitologie. Anche quando è una New York che ha ospitato l’esperienza vissuta di chi scrive, i grattacieli e la grandezza sono sempre la scenografia di un’umanità frenetica in cui i sentimenti fanno spesso fatica a trovare la loro misura. Che sia l’emigrante di Hellis Island Savì, suocero di Rosa Elisa Giangoia a cui è dedicata la poesia di apertura, o l’europeo cosmopolita del poemetto ‘Voci di New York’ di Massimo Bacigalupo, o lo spettatore della bohème del Greenwich Village protagonista delle poesie di Eny V. Di Iorio o, ancora, il cittadino dell’oggi Franco Zangrilli, la pulsione non è quella della nostalgia ma quella del ritorno a casa.

New York è un crogiuolo umano ancora più complesso del melting pot americano, il crocevia di linguaggi e storie evocato da “Noche oscura a Sackett St.”, unico contributo dell’autore della prefazione al libro Massimo Mandolini Pesaresi. Ed è soprattutto i suoi edifici, le sue architetture di acciaio e vetro e i suoi grandi parchi e i luoghi delle sue mitologie come il “Madison Square Garden” di Andrea Guiati.

 

New York, brand globale, città italoamericana per eccellenza, è un luogo straniero o addirittura ostile anche per il resto d’America: il suo fascino è spesso abbagliante ma precario come le luci di Broadway a cui è incatenato il Prometeo digitale del poemetto di Mario Moroni. Una città che è un la reclame del sogno americano, come il manifesto che ispira “hic manebimus optime” di Luigi Ballerini.

Slanciata verso il Paradiso, New York assomiglia più all’inferno, come immagina Milena Buzzoni nella sua “Dante a New York”.

Questa è una raccolta che parla del nostro tempo, osservandone uno degli orizzonti più estremi, che viene attraversata, trattenuta e rilasciata dalle parole.

 

Libri e giardini (di Rosa Elisa Giangoia)

Seduta a Bryant Park

mi cantavano nel cuore

le parole di Cicerone:

si hortum cum bibliotheca habes

nihil deerit.

 

Dovunque è vero,

anche nel Nuovo Mondo.

 

Drew (da Voci da New York di Massimo Bacigalupo)

“I’m in a New York stae of mind” canticchiava

un ragazzo che il Vecchio Drew, che aveva

combattuto in Germania, incontrò lungo la

spiaggia atlantica la sera dell’11 o 12

settembre 2001. Lo spirito della città.

 

 

New York ore 6 p.m. (di Milena Bulzoni)

Poco cielo

fra i grattacieli,

il tramonto

è un’illusione

in fondo a un incrocio,

lamine di luci iridescenti,

lampi di fari,

alberi chiusi

dentro intarsi ortogonali,

odori di catrame e co2

su marciapiedi senza foglie

dove i passi si accelerano

verso destinazioni di cartone.

New York

ha

tra le ciglia

lacrime a led

 

Solitudine americana (di Mario Andrea Rigoni)

A un bar di New York un nero

imponente, con un grosso grembiule

sulla pancia ingombrante, prepara

un cocktail a base di rhum e menta.

Piatti di soft shell crabs paiono

di morbido oro nell’ombra del locale

un poco opprimente. Sette donne

siedono tutte in fila al bancone

e volgono il capo al nuovo arrivato.

“Are you looking for a nice time?”

Chiede una di loro, la più avvenente.

“Good move” , dice, strizzando l’occhio,

alle altre, il barista compiaciuto. I due

escono abbracciati nel sole indigente.

 

 

Illusione (di Franco Zangrilli)

Illusione dimmi

dove hai lasciato

e l’altro me

 

in una avenue nwyorkese?

o in una via della Ciociaria borghese?

 

Da Sinestesi newyorkesi “Village Lost & Found” di Eny V. Di Iorio      

Iloveny

È un sogno preciso

Un sorriso pieno di mille sorrisi

Dal nulla vedo uscire

Un’umanità dispersa

Incessantemente alle prese

Con la giungla urbana

Mischiata di purezza perdute

0

Terry Olivi

Un libro e un video in ricordo di sua madre



Pubblico un bel video ispirato al libro di poesia che Terry Olivi ha dedicato alla memoria di sua madre, dal titolo “Ti ho lasciata con gli alberi”, di cui aggiungo qui la copertina.

https://youtu.be/JdqzjfuMIWM

Nel 2017 era uscito un altro libro di Terry Olivi dal titolo “Nell’indaco notturno-Dialogo di un anno”, dedicato invece al padre. “C’è un dono, quasi una scheggia pulsante, tagliente d’Infinito, e un inesorabile, ineludibile gesto rituale, in questo libro – ma forse è meglio dire: avvento laico – con cui Terry Olivi, per un anno intero, ha evocato e rimpianto, invocato e compianto il suo vecchio padre ormai defunto, collezionandogli una miriade di liriche come salmi, insieme, di anima e di natura…”
Dalla prefazione di Plinio Perilli.

Sto vedendo il cammino.

Dall’ombra alla luce
dalla morte alla vita.
Dopo la tua fine
un’esigenza di luce
di sole e di natura.
La terrazza è il levarsi
al cielo, alla poesia,
conoscere se stessi,
e il legame con il sacro.
Dopo il regno di Plutone
la primavera dell’aria.
Nella cappellina di famiglia,
bianca di marmo di carrara,
non ti trovo,
troppo freddo, mancanza di vita.
Ti incontro
tra fiori, limoni, olivi
e i rintocchi gravi della Sperduta.

Roma, 5 ottobre 2014


0

Antonella Sica

L’ira notturna di Penelope

E’ uscito un nuovo libro di Antonella Sica, che aveva già pubblicato nel 2017 La memoria nel corpo Rayuela Edizioni, vincitore del Premio Internazionale di Poesia Città di Milano. Con l’inedito di questo ultimo libro ha vinto invece il Premio come Miglior Silloge al Premio di Scrittura Femminiel “Il Paese delle donne”.

“Più si procede nella lettura, più ci si rende conto del forte valore ossimorico del titolo di questa silloge, che suona come un sfida. Un titolo che ci spalanca la dimensione mitica cui l’Autrice attinge, una dimensione che le perviene attraverso le generazioni come ‘una pelle troppo stretta cucita addosso’, ma che lei scopre, o riscopre, anche scavando dentro di se, cercando di districarsi con pena tra l’una e l’altra dimensione, quella del presente e quella del passato, inoltrandosi in una voragine di buio, per tentare di riemergerne, ferita, forse sanguinante, ma disperatamente viva”.
Dalla prefazione di Donatella Bisutti.

Antonella Sica

C’è questo labirinto di parole
e io sono al centro che cerco
l’uscita scrivendo.
Chissà, fuori, penso,
c’è un refolo vero di vento
e un riposo fatto d’essenza.
Forse lo guardo sarà senza penna
e la domanda libera dalla ricerca.
Forse, fuori, prenderò la tua mano
in silenzio, trasalendo al calore
della carne senza parole.

0

ITALIAN POETRY REVIEW XV 2020




E’ uscito il nuovo numero della prestigiosa rivista italoamericana, di cui mi occuperò più dettagliatamente in seguito.

Intanto desidero segnalare che appare pubblicata in questa sede prestigiosa la recensione al libro di Umberto Fiori, Il Conoscente, che già era uscita su questo blog tempo fa.

1 2