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“Erano le ombre degli eroi” la recensione di Marzia Minutelli sulla rivista Atelier

Vi faccio parte della bellissima recensione al mio libro “Erano le ombre degli eroi” di Marzia Minutelli pubbicata sul numero 115 della rivista Atelier diretta da Giuliano Ladolfi.

 

 

 

La «novella Tebe» di Donatella Bisutti

Marzia Minutelli

 

[…] il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo – cioè non qualcosa

di arbitrario ma un vivaio di simboli cui appartiene, come a

tutti i linguaggi, una particolare sostanza di significati che null’altro

potrebbe rendere.

CESARE PAVESE, Dialoghi con Leucò, Avvertenza

 

A breve distanza dalla ricapitolativa sillog e di versi Sciamano (Gottaminarda, Delta 3, 2021) e dalla raccolta di aforismi Ogni spina ha la sua rosa (Bologna, Pendragon, 2022), Donatella Bisutti dà alle stampe una composizione poetica di largo respiro e di alte ambizioni, Erano le ombre degli eroi (Firenze, Passigli, 2023, prefazione di Eugenio Borgna), la cui stesura l’ha tenuta impegnata per quasi un quadriennio, dal dicembre del 2015 fino all’agosto del 2019 1. Opera tipologicamente affatto eccentrica nel panorama della lirica italiana contemporanea, il cui antecedente più prossimo sembra potersi ravvisare in The Waste Land di T.S. Eliot e nel suo «mythical method»2, il testo si configura come un (post)moderno poema epico, articolato in cinquantadue atti distribuiti in sette parti di diversa ampiezza che correda, secondo il modello eliotiano, una fitta congerie di dotte note esplicative. Il racconto bisuttiano – che di poesia narrativa propriamente si tratta, con intercalate otto sequenze dialogiche di stampo teatrale arieggianti la tragedia attica – fa perno sul più fosco e frastagliato tra i complessi mitologici greci, quello afferente alla «città nefasta» (p. 17) per antonomasia di Tebe, che, ripercorso nella sua totalità (dalle peripezie del fondatore Cadmo e della sorella Europa all’infando dramma familiare di Laio, Giocasta ed Edipo fino alla spedizione fratricida di Polinice e dei suoi sei compagni e alla conclusiva guerra degli epigoni)3, viene liberamente rivisitato e rifunzionalizzato nei suoi significati simbolici per farne una «grande rappresentazione  metaforica del mondo in cui viviamo»:

Ho guardato […] alla realtà di oggi attraverso la lente di un Mito spezzato e ricomposto da

molti frammenti e al tempo stesso ho guardato al Mito come all’incunabolo della nostra realtà:

una spola fra un lontanissimo passato e il presente che, se mi indusse a reimmergermi nelle

oscure, enigmatiche, contraddittorie profondità del Mito, mi spinse anche a stravolgerlo

(Prologo, p. 9).

Il mito ellenico, dunque, come uno specchio grandangolare in cui si riflettono le molteplici insorgenze socio-economiche e antropico-ambientali dei nostri giorni, siano esse l’occidentale «orgasmo mercantile» (p. 45) delle multinazionali e il cinismo delle relative speculazioni finanziarie, le migrazioni coatte degli ultimi della terra e le nuove forme di schiavitù, le discriminazioni etniche e l’erezione di muri, la violenza perpetrata nei confronti di donne e minori, le derive onnipotentistiche della scienza, le insidie dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, le cruente tecniche di macellazione animale e gli allevamenti intensivi, il consumismo cieco e gli abusi alimentari, la devastazione dell’ecosistema nei suoi mille risvolti (l’estrazione sconsiderata dell’«Oro Nero»4, l’iperproduzione di rifiuti, lo scialo delle risorse idriche, le calamità naturali correlate alla progressiva desertificazione del pianeta).

Ma, nel fantasmagorico gioco di rifrazioni di questo visionario oeil de sorcière non sono solo le storture e le scabrosità dell’epoca odierna a versarsi negli stampi leggendarî del paradigma tebano, ma è quel medesimo luogo archetipico a subire una deformazione prospettica attualizzante, popolandosi di tunnel e di grattacieli, di cinema e di night, di pizzerie e di fast food, di treni e di autobus, di ambulanze e di furgoni,di ruspe e di container, di droni e di bazooka, di computer e di smartphone, di carte di credito e di «lattine di coca cola» (con le iniziali del nome del marchio ostentatamente in caratteri minuscoli, p. 117).

Il monstrum primigenio, gli abominî esemplarmente connaturati alla materia antica grondano i loro putridi umori sul presente, ma, mentre in quel metatempo ancestrale a compensarli e a redimerli soccorreva – polarità complementare che attiene all’ambivalenza fondante della dimensione mitica – il culto della bellezza, l’attuale umanità «ha smessodi credere alla Bellezza e ha perso la capacità di sublimare l’orrore» (Prologo, p. 10).

Se gli dèi, abitanti atarattici e fatui di un oltremondo di cartapesta, appaiono ormai soltanto quali simulacri indistinti («Non erano più gli dei, erano le pallide ombre degli dei», p.135), gli eroi, smarrita la loro scintilla divina, ossia la prometeica fiducia nelle virtù e nelle facoltà intrinseche alla dignitas hominis, si sono ridotti a propria volta a «ombre», come il titolo stesso del libro addita. Così, abbrutiti nel corpo e isteriliti nello spirito, si presentano i cittadini di questa distopica Tebe-mondo al centro dell’Atto L, per l’appunto l’eponimo dell’opera, in una pagina tra le più coraggiosamente impietose e incisive del poema:

Ininterrottamente

entrano ed escono dai grandi centri commerciali

caricature delle statue di Apollo, dell’uomo

di Leonardo di là da venire,

immagini di una bruttezza abusata.

Portano sandali di plastica su piedi deformi se è estate

o scarpe da jogging consumate d’inverno,

jeans strappati, shorts troppo larghi su varici pelose, ripugnanti

rotoli di grasso escono da sotto

casacche di tela a fiori,

portano giacche a vento nere col cappuccio, ridicoli berretti

su teste rasate, calve, precocemente

grigie, hanno brutti nasi, guance cadenti

accanto a loro donne secche sbiadite obese con enormi

sacche di cibo appese al braccio

Le ombre degli eroi

Incessantemente vanno e vengono escono dagli uffici

entrano nelle toilette

a volte si suicidano sotto i vagoni della metropolitana

e questo è sgradevole perché causa ritardi nei trasporti

che irritano gli altri in attesa

a volte sterminano la famiglia moglie e figli piccoli

a volte strangolano le loro donne che vogliono lasciarli

a volte presi da malinconia

sfogliano album di foto di quando andavano a scuola

e non si riconoscono in mezzo ai loro compagni (pp. 123-124).

L’andamento prosastico dei versi, volutamente scabro e disadorno (uno stile discorsivo asciutto e crudo contrassegna d’altronde l’intera opera, a eccezione dei tre intermezzi denominati «favole sulla Bellezza» e dei già ricordati quadri scenici, dove a tratti si elegizza in vibranti accensioni liriche5 o si impenna solenne o trenodico, a mimare i moduli, rispettivamente, delle sezioni patetico-descrittive dell’epica e del dramma classici), ben si conforma alla rappresentazione di questi individui alienati, insulsi e senza scopo, «massa miserabile» in balìa dei disegni di annientamento dei «signori di Tebe» (p. 125), sprezzanti e feroci plutocrati che nell’ombra ne muovono i fili:

Per la loro bruttezza e miseria,

meritano di scomparire.

Sono come formiche,

e non ne proveremo più pena

che a distruggere un formicaio.

Un groviglio nero (p. 126).

Denuncia – «grido di allarme» e non lamentazione, per espressa dichiarazione dell’autrice6 – di uno status quo dai toni deliberatamente algidi e impersonali, dunque, che informa nondimeno un acre moralismo di stampo giovenaliano (ma a fare questi versi certo concomita l’indignatio dantesca, ché nella prima cantica della Commedia a paradigma per eccellenza di città degenerata assurge appunto la polis beotica)7 e al contempo trascorre una sotterranea pietas per i vinti e i reietti, siano essi illustri personaggi (specialmente femminili)8 del mito od oscuri figuranti della storia e della cronaca contemporanee, tali gli extracomunitarî «schiavi» stagionali «[…] piegati sui campi / a raccogliere i frutti sacri della terra / nella piana sterminata / prima che sorga l’alba»:

Li hanno scaricati da vecchi furgoni

corpi ammassati schiacciati uno sull’altro

nell’afrore acido dell’estate

come animali portati al macello

gettati sulla piana a raccogliere i frutti d’oro rosso

i pomi d’oro del Giardino delle Esperidi

ogni giorno riempiono cesti e casse

il sugo fiammeggiante dei frutti è tutt’uno

con il sangue delle loro dita (Atto XL, Gli Schiavi, p. 93).

Ma l’apocalissi prossima ventura, l’annunciata catastrofe di questa tragedia della ὕβρις e dell’avidità umane che, definitivamente infranta l’armonia tra essere e cosmo, balena l’annullamento stesso della poesia e della sua funzione civilizzatrice9, può forse essere ancora stornata se nell’explicit dell’ultimo Atto i bambini, pur non riuscendo a scorgere nel cielo velato gli dèi che in extremis tentano di tornare «in aiuto ai mortali» (p. 135), dopo aver assaggiato la «mucillagine disgustosamente dolce» (p. 136) pianta dalle nuvole sulla terra desolata, ridono. Il mondo dunque, giusta l’utopico auspicio che fu già di Elsa Morante, verrà salvato dai ragazzini?

 

NOTE

1 Prima, quindi, dell’emergenza pandemica da Covid-19, le cui risonanze psicologiche, contrariamente a quanto sembrerebbe

lecito supporre (leggendo ad esempio i vv. 65-69 dell’Atto L, p. 125: «Ma lasciamo che muoiano da soli / […] / […]

soltanto di inedia, malattie / che non è colpa nostra se non possiamo curare»), non hanno perciò concorso alla concezione

del testo.

2 In «Ulysses», Order, and Myth, saggio sul romanzo joyciano pubblicato su «The Dial» nel 1923, lo scrittore afferma che il

criterio in questione «è semplicemente un modo di controllare, ordinare, e dare forma e significato all’immenso panorama

di futilità e di anarchia che è la storia contemporanea» (THOMAS STEARNS ELIOT, Opere 1904-1939, a cura di Roberto

Sanesi, Milano, Bompiani, 2001, p. 646).

3 Non senza disinvolti sconfinamenti nell’àmbito di altri miti classici, ad esempio nel componimento consacrato all’orto

delle Esperidi, pur sempre implicato con il ciclo tebano per il tramite di Eracle, nativo appunto della città beotica (Atto

XXXIX, Il Giardino incantato), o in quello incentrato sulla secondogenita del re dell’Argolide Agamennone, immaginata

vittima dello stupro paterno (Atto XLVII, Elettra), o ancora della storia antica, ad esempio nel testo che vede protagonista

– pur innominato – il condottiero Epaminonda, promosso a campione emblematico della lotta democratica all’imperialismo

(Atto XLII, Il Comandante e l’Impero).

4 È il titolo dell’Atto XLIII, dedicato al petrolio, «sangue oscuro della Terra»: «Ma oggi i nuovi Tebani / più non erigono

templi ad Ade / non più temono di fissare i suoi occhi impietosi / ed estraggono quel sangue oleoso da pozzi profondi

/ scavati / a ferire la terra. // Non temono le Gorgoni che abitano / nell’estremo occidente, presso il regno dei morti, /

e il nero sangue velenoso simile a quello / che zampillò dalla testa tranciata di Medusa, / lo vendono più caro dell’oro /

lo chiamano oro. Ma l’oro / ha lo splendore del sole / […] / Questo oro invece è nero / e quando si infiamma / ha

bagliori sinistri. / Nero è il suo colore di morte» (pp. 101-102).

5 Penso in particolare ai diafani movimenti iniziali dell’Atto XXVI, Selene, e del già ricordato Atto XXXIX, Il Giardino

Incantato, dove trema, carduccianamente, un desiderio vano della bellezza antica.

6 Nell’intervista concessa a Francesca Rita Rombolà per il blog Poesia e Letteratura, consultabile al seguente link: https://

www.poesiaeletteratura.it/wordpress/2023/12/che-la-poesia-sia-la-nostra-linea-di-resistenza-conversazione-con-donatella-

bisutti/.

7 Né andranno dimenticati gli exempla tebani allegati nel Purgatorio e nel Paradiso. Superfluo ricordare che la citazione che

intitola queste pagine è attinta dall’apostrofe del canto XXXIII dell’Inferno, la celeberrima invettiva scagliata, in coda

all’episodio del conte Ugolino, contro «Pisa, vituperio delle genti» (v. 79), definita appunto «novella Tebe» (v. 89).

8 Tale l’Elettra-Ofelia, suicida dagli sciolti capelli inghirlandati di fiori, del già ricordato Atto XLVII.

9 Cfr. nell’Atto LI, Simili agli Dei (Seguito), lo scambio di battute tra CHAIRMAN ed EXECUTIVE: alla domanda del primo «E

cosa ne faremo dei poeti?» segue questa risposta del secondo: «Come un’erba nefasta li estirperemo / perché predicano

la libertà e l’insurrezione» (p. 128).

 

 

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“Sciamano”, la recensione di Silvia Venuti su Italian Poetry

 

 

Recensione uscita su Italian-poetry.org, gennaio 2023

 

SCIAMANO DI DONATELLA BISUTTI

 

La raccolta Sciamano di Donatella Bisutti (Delta3 Edizioni) possiede la qualità di riuscire ancora a stupire per la tensione poetica da cui è attraversata. Si inizia la lettura con una introduzione o nota poetica ove l’autrice afferma i principi che sono all’origine della propria scrittura e a cui è rimasta sempre fedele e che si presenta come una testimonianza – manifesto: “Nella mia poesia una dimensione mistica, contemplativa, è quasi sempre sottesa, e così una concezione della Poesia come cammino di conoscenza metafisica. Credo che essa non si possa interamente capire se non si tiene conto dell’influenza, in essa, del pensiero orientale e in particolare del pensiero zen”. E il rilievo dato alla metafisica del Silenzio, all’Ascolto, al Deserto, al Vuoto-Tutto e al Nulla come Totalità ne marcano l’indubbia costante connessione. L’incontro con il pensiero del poeta filosofo Edmond Jabès di cui traduce in parte Le Livre des questions la portano a considerare la Poesia come Domanda. Una Domanda che introduce al Mistero come limite della ricerca di Senso umano, un limite che non è da considerarsi una sconfitta perché apre la porta al Sacro. L’autrice così intende far riscoprire il valore iniziatico della Poesia quale Anima che cerca l’Amato, l’anima innamorata di Sant’Agostino e di San Giovanni della Croce. In una dimensione autoriflessiva la raccolta si apre con testi inediti scritti tra il 2015 e il 2020. Nella prima parte, la sezione Cosmica con Alba sul mare evoca da subito il registro alto con cui si muoveranno le altre poesie: una visione mitica che risuona della classicità mediterranea. Lo sguardo è ferito dalla troppa luce e noi presi da timore profondo eppure è un sole piccolo e smarrito / e la sua ferocia è solo il segno / di una ferocia più grande. La realtà rappresentata da un punto di vista ‘ottico’ sconfina nel metafisico attraverso paragoni e simbolismi.  Anche i successivi testi saranno illuminati da questa acuta intelligenza associativa che crea originali riflessioni e analogie. Questa ricerca del Senso dilata la parola in fantastici rapporti di nesso, a volte in ironiche, a volte in drammatiche conclusioni. Si ha l’impressione che sempre sfugga qualcosa d’indecifrabile che la scrittura cela preziosa: l’autrice riesce a far esperire un limite e ad attuare un rovesciamento in una dimensione altra. Afferma Donatella Bisutti che il poeta dev’essere qualcuno che cerca di andare al di là dei limiti dell’io ed esplora a suo rischio una zona pericolosa e sconosciuta che è molto attigua a quella degli antichi ma a volte anche contemporanei sciamani. A quella dei mistici, degli iniziati, di quegli uomini che, nel corso dei millenni, sono riusciti ad accostarsi alla Sapienza. (…) Per questo ho messo titolo alla mia nuova raccolta Sciamano, riprendendo quello di una delle poesie. Poesia in cui emerge l’ostinata fede nella ricerca della Fonte al di là delle montagne, tra ostacoli e dirupi: il cammino dell’anima alla ricerca di Dio nell’intrico drammatico dell’esistenza. Protagonisti della prima sezione sono il Cammino e il Passo, come essenza, sospesi in un Tempo e Spazio che si rapportano all’Assoluto. Come è evidenziato con luminosa intuizione in La strada: La strada va nei due sensi: / dal passato al futuro / dal futuro al passato. / Futuro e passato / si equivalgono. / Solo il presente / è il passo di Dio. / “Io sono la Via”. Ogni parola nella scrittura dell’autrice acquista valore simbolico con riflessi cosmici ma anche psicanalitici, antropologici, come in Ogigia o Opposti espressi in delicate descrizioni naturalistiche con un registro quasi biblico. Una scrittura di grande raffinatezza, dai sensi aperti, in autoanalisi costante nel rapportarsi alla natura con cui s’identifica.  Nella sezione Spiragli si propongono avventure dello sguardo anche in forma breve, aforistica, influenzate dalla cultura orientale tipica degli Haiku, come in Primavera ritorna: Primavera ritorna / ma non / lo stesso fiore. O in Kyoto: Il vento di dicembre / stacca / l’ultima foglia di acero rosso / davanti al padiglione d’Oro. Si coglie l’unità tra morte e rinascita mentre in Ritmo mattutino la contrapposizione del suono e del silenzio interiorizzati in una ripetizione senza fine. L’evocazione dell’eternità, dell’infinito, l’immedesimazione cosmica per giungere all’Assoluto e sentire Dio sono costanti nei versi come l’unità del Tutto, del microcosmo e macrocosmo. La terza sezione è dedicata all’Ispirazione e si presenta come un’autoanalisi spontanea del rapporto che l’autrice vive con la Poesia con un linguaggio di grande immediatezza che si muove verso la prosa. Nella seconda parte della raccolta con la sezione Infanzia prevale nel ricordo il sentimento del dolore. Il ritorno al passato è celebrato con un linguaggio semplice e descrittivo che rende memorabili certe immagini di solitudine e sofferenza: Il Chiaro di luna di Beethoven ne è esempio esemplare E allora ero riconciliata con lei, mia madre / che sempre mi respingeva (…)  Poi lei chiudeva il piano di scatto / la musica era finita – riponeva lo spartito / e subito trovava il modo / di sgridarmi per qualcosa (…). Nella seconda e terza sezione Un mostruoso miracolo e Rappresentazioni domina il sentimento del distacco, della perdita, della paura, della morte come in Vita: Si accartoccia su se stessa la vita / come una foglia che / cadendo dal ramo / si è smarrita.  / Il corpo giace in croce / senza più voce. Vibrante di tenerezza e di rimpianto commosso la poesia dedicata alla figlia: Tu sei la rosa / che io getto oltre il muro / sei quello / che non m’appartiene / il futuro / che non potrò vedere. Tante le ombre dolorose che tracciano azioni e personaggi negli ultimi testi inediti ove figure ben definite si stagliano nel ricordo per vivere la loro rappresentazione. Donatella Bisutti ripropone ancora due testi ora introvabili nella loro edizione originale: Violenza della DIALOGOLibri del 1999 e Penetrali curata da Giovanni Tesio per le ed.Boetti&C del 1989. Nel primo testo racconta con lucidità e distacco la violenza nelle sue diverse forme usando soprattutto l’aforisma e poesia breve. Viene espressa con tragiche immagini una orribile ferocia, una crudeltà senza limiti. Visioni drammatiche sono costruite con brevi versi evocando torture fisiche efferate. Atrocità e malvagità estreme abitano la parola: Tagliare la lingua. / Togliere la Lingua. / Uccidere la vita là dove si annida, / in fondo alle cellule. / Il piombo affonda nella carne molle. La plaquette Penetrali rappresenta tra osservazioni e similitudini un’inquietudine oscura sottesa alla parola. Si caratterizza con intense poesie dedicate ai poeti come quella a Raffaello Baldini intitolata Preghiera: Tu che ascolti il mio silenzio, vedi / la mia oscurità, non ti sgomenti / dell’odio, ma dell’amore / – mi insegni che il vero orgoglio è umile / e una domanda non deve attendere risposta. / Come potremmo altrimenti avere fede? / Preghiamo / di non sapere. Inganno Ottico, libro d’esordio di Donatella Bisutti, ottenne il Premio Montale per l’Inedito e fu tradotto poi in Francia dal poeta Bernard Noel. Pubblicato in Italia da ed. Società di Poesia Guanda, nel 1985, è ora introvabile e risulta, quindi, di grande importanza la sua riproposta in Sciamano, per ripercorrere l’intero itinerario poetico dell’autrice. Il testo richiederebbe una nota di commento a parte per la ricchezza dei contenuti affrontati e la libertà creativa della forma che condensa parti in prosa e in versi. Ne è emblema il brano Il sentiero e la durata: (…) In realtà il sentiero come tale non conduce da nessuna parte, è solo un’immagine del passaggio, della durata che nasce dalla successione della contraddizione. La durata è il passaggio del sentiero sul filo della cresta del monte, il profilo di quella creta, spartiacque fra terra e cielo, mentre disegna l’esistenza dell’uno sottrae l’esistenza dell’altro, e non appartiene né all’uno né all’altro.  La dimensione dell’inconscio incontra il conscio e il poeta si fa canto libero della materia che diviene spirito. L’ispirazione come stato di transe è stato sperimentato dalla poetessa particolarmente durante la stesura di Inganno Ottico: La scrittura andava più veloce di me e ho spesso capito il senso di questi testi solo dopo (…). Mi pareva in certo modo di scrivere sotto dettatura e di trasmettere dei messaggi, che tuttavia restavano anche oscuri e polisemici. (…) All’inizio non li consideravo dei testi letterari, ma degli appunti tra l’esistenziale e il filosofico.  L’école du regard degli anni 50 e 60 ha sicuramente influenzato l’autrice per la descrizione dettagliata e quasi ossessiva degli oggetti e della realtà esterna ma i medesimi diventano occasioni di amplificazioni di percezioni metafisiche, includendo uno spazio tempo che evoca l’inconoscibile e il mistero. L’elaborazione concettuale volge a trasformare, a creare metamorfosi tra le contraddizioni, le metafore, i simboli, le analogie. Si è di fronte ad una delirante razionalità: gli ossimori sono una trama costante nella scrittura di Donatella Bisutti. In un surreale vagare tra le materie e le tematiche più diverse a volte l’incubo incombe straziante in questo straniamento soffocante. Nelle ultime sezioni Movimenti e Animalia emerge una componente ironica che rivela un distacco dalle sensibilità più sofferte ma che non trascura di rapportarsi sempre alla natura umana più profonda come in  Pesci II: Liberi – all’interno dell’acqua. / Così pronta a schiudersi – / a chiudersi. Si deve, inoltre,  ricordare come un altro importante aspetto caratterizzi la scrittura dell’autrice: l’adesione al Mito, agli Archetipi presenti nella mente umana e studiati da Jung come facenti parte dell’inconscio collettivo. In Sciamano sono spesso evocati come lo furono in particolare nelle due precedenti raccolte Rosa Alchemica e Dal buio della terra. Evocati tuttavia in modo inconsapevole essi si “incarnano” nella parola e testimoniano come – afferma la poetessa – la Poesia sempre trascende il poeta.

Silvia Venuti

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Sciamano

                                                   A Bernard Guillot

Il tuo cranio, camita,
le tue brache da viandante, sformate,
i talloni terrosi, le tue grosse dita…
graffiato in ogni parte dagli arbusti
nelle pozze occhiute del torrente
nei dirupi arsi
alla ricerca della fonte prima
di ogni fonte
quella
che sta di là delle montagne, sempre al di là,
nascosta,
mai trovata, eppure
che c’è dicono, esiste
e tu a rischiare la tua vita
nell’intrico arrogante dei rami
nelle chiuse forre dei boschi
fra i massi
scagliati da foschi giganti
in battaglia sui monti,
per cercare da uomo la fonte
della tua divinità ferina.

I fauni ti porteranno a spalla quando
non potrai più avanzare
abbandonato a terra giacerai
davanti al dio:
–  che sia salvo – 
consentendo col capo.

Allora ti ridesterai
ferito? , chiederanno i molti all’intorno
saliti  in tuo soccorso con  piccozze e corde
e tu : – sono tornato, dirai,
ho conosciuto la montagna
non ho trovato la fonte,
ma c’è, sono sicuro
e di nuovo ti avvincerà profondo il sonno
degli antichissimi tempi dei boschi.

Inedito

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Natale

Natale è tutti i giorni –

la vita che si accende dentro

e continua  anche se

fa freddo non c’è pane

è buio

non c’è nulla per scaldarsi

nulla

per ricoprirsi

non c’è casa –

Natale è la festa di noi che siamo vivi

e perché siamo vivi

partoriamo ogni giorno

– tutti

uomini e donne

un Dio di calore e sangue

un Dio di fuoco

questo bambino d’inverno

seme della speranza del mondo.

Inedito

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L’arancia d’oro

Guarda dalla finestra la manifestazione

con striscioni che dicono non ci fermeranno un altro

mondo è possibile.

Cantano per la giustizia.

E’ dicembre. Fa freddo.

Lei non può più camminare.

Nella sua mente si forma

l’immagine di un pino

in una foresta di neve.

La neve è soffice e lei sente

l’odore acuto degli aghi di pino che cadono

come nei Natali dell’infanzia.

Tutto l’incanto e il miracolo era in quell’odore acuto di pino

che si sfaceva a poco a poco.

Anche il pino

stava davanti alla finestra.

Lei guardava fuori

nella bruma dell’inverno.

Come allora anche adesso

sta davanti alla finestra.

Da un ramo pende una grande arancia d’oro.

Dalla strada si levano grida,

la gente agita striscioni

scritti nelle lingue del mondo.

La polizia spruzza gas vietati

dalla convenzione sulle armi chimiche.

Spruzza in nome

della violenza legale.

Spruzza con abbondanza

come se stesse innaffiando le aiole.

Questi fiori hanno bocche e occhi.

Ci sono sempre molti

disposti a lavorare nella polizia

perché amano la violenza legale. 

Lei vorrebbe scendere in strada ma non può.

Da un ramo del pino pende una grande arancia d’oro.

Lei vorrebbe afferrarla ma non può.

E’ Natale.

Inedito

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