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Poeti in ombra, ovvero I poeti e la fama (pubblicato su I Limoni)

Di seguito il mio saggio “Poeti in ombra, ovvero I poeti e la fama” pubblicato su I Limoni, Annuario della Poesia in Italia nel 2023, a cura di
Francesco De Nicola

 

 

Poeti in ombra
(ovvero I poeti e la Fama)
di Donatella Bisutti
Ogni poeta ha un suo rapporto personale, a volte bizzarro, con
la Fama. Ma questo rapporto, prima di essere personale, può
essere condizionato, favorito, od ostacolato, prima di tutto da
ragioni familiari, ma anche sociali, storiche, politiche. Come
succede per il denaro, ci sono, anche per quanto riguarda la
Fama, i ricchi e i diseredati. C’è chi la riceve in qualche modo,
come la ricchezza, per via ereditaria, e il suo è quasi un de-
stino: infante, gioca a cavalluccio sulle ginocchia di qualche
nome iconico della letteratura amico di casa, di qualche fa-
moso editore che già lo prende a benvolere e domani lo pub-
blicherà senza che lui debba fare il minimo sforzo, di qualche
proprietario di importanti testate giornalistiche, oppure nasce
in una famiglia di scrittori famosi: la Fama aleggia intorno alla
sua culla e già sembra spalancare le porte al neonato. Ma biso-
gna pur dire che a volte – rare volte – questo può essere anche
un handicap: c’è infatti anche chi proprio per questo dubita
di essere all’altezza e del casato letterario gli capita in sorte
solo il peso e l’inibizione, soffre del confronto, si rattrappisce,
si fa piccolo ed evita di intraprendere una carriera di poeta.
Conviene anche notare tuttavia che, curiosamente – ma ci sarà
pure una ragione – la poesia è molto meno ereditaria, chissà
perché, della musica, o della pittura, e perfino della narrativa.
Filtra difficilmente attraverso il DNA.
La Fama è comunque, per definizione, una nozione non
privata, ma pubblica. Ogni epoca ha, per la Fama, e anche
per la Fama dei poeti, un suo criterio, un suo metro, una sua
misura. Perciò può anche succedere, al contrario, che la Fama
si posi sul capo di chi è nato povero, diseredato, diverso, di-
sgraziato, escluso, e proprio per questo diventa in certo modo,
socialmente, un vessillo, una bandiera di tempi nuovi, diversi.
Prima di essere una questione personale, quindi, la Fama,
ancora più che un fatto sociale, è una questione che ha a che
fare con la Storia. E la Storia significa il Tempo. Ci sono poeti
che nascono fuori tempo. In ritardo o in anticipo. Più che al-
tro in ritardo. Anche se mi viene in mente almeno un caso di
poeta “in anticipo”: Emilio Villa, che anticipò la neoavanguar-
dia, ma nessuno volle mai riconoscerglielo, e fu anzi messo
al bando, ghettizzato, ignorato. Vero è che sembra avesse un
caratteraccio. O il caratteraccio gli era venuto di conseguen-
za? Così ci volle che gli venisse finalmente dato un premio,
quand’era ancora vivo ma malato – e non poté ritirarlo – da
una giuria da me presieduta e significativamente non costitu-
ita da poeti, ma da artisti, scultori e pittori, uno psicologo di
fama come Mauro Mancia e un’attrice come Ottavia Piccolo.
La Moda è la sorella frivola, incostante, apparentemente
superficiale della Storia. Perciò la Fama e la Moda, anche per
quanto riguarda la poesia, vanno a braccetto. Perché non esi-
stono parametri sicuri, oggettivi, con cui pesare una poesia
(anche se Pound aveva detto che il poeta, “come il porco”,
si può pesare, ma “dopo morto”). Così come non esiste un
criterio oggettivo che ci dica, fuor da ogni dubbio, se è giusto
che una gonna sia lunga, o se deve essere corta, un paio di
pantaloni a zampa di elefante o a tubo, una giacca attillata
oppure ampia: nella moda si decide al momento quello che
va bene, oppure no. E appena si è deciso, ecco che si cambia
idea. Anche nella poesia, in fondo, succede lo stesso. Anche se
affermarlo potrà sembrare blasfemo. Chi si presenta a un rice-
vimento con una gonna lunga quando usano ormai le gonne
corte, sarà considerato una persona demodée e inelegante. Cosi
un esempio di poetessa fuori moda, perché fuori tempo, cioè
in ritardo, anche se a suo modo elegantissima, è stato quello
di Giovanna Bemporad. Giovanna Bemporad ha scritto del-
le poesie bellissime, che sarebbero piaciute a Baudelaire e ai
poètes maudits, poesie dense di simboli e trasudanti una sen-
sualità ambigua, perfette nella forma, troppo perfette in anni
in cui la neoavanguardia – quella anticipata da Emilio Villa,
che nel frattempo era arrivata – scardinava il linguaggio e se
ne infischiava dello stile, gettava fiaccole incendiarie sulla per-
fezione, sghignazzava sui simboli e buttava nella spazzatura gli
endecasillabi, i sonetti, le assonanze. La Bemporad è diventata
famosa come traduttrice, in moderni splendidi endecasillabi,
dell’Odissea, ma le è stata pervicacemente negata la Fama in
quanto poetessa in prima persona, uno strazio per lei insop-
portabile, che si è portato dentro – ma lo esternava anche mol-
to – fino alla tomba.
Ma come, si dirà, si può abbassare la Poesia, arte del su-
blime e dell’eterno, al livello di qualcosa di frivolo come la
Moda? Paragonare i sonetti ai merletti? Un’ode a un abito da
sera? Eppure, senza nulla togliere alla poesia, nel cui valore
anche metafisico, anche oracolare, sciamanico, io credo pro-
fondamente, nel mio saggio La poesia salva la vita mi sono
sforzata di mostrare come essa si occupi anche di bidoni della
spazzatura e di calzini bucati, come possa andar per via anche
più povera e nuda della filosofia, come sia qualcosa con cui,
facendola scendere da pretenziosi piedestalli, possiamo avere a
che fare nel quotidiano, in cucina, nel sottoscala, in cantina,
tutti i giorni. Come possa essere anche proletaria e diseredata.
E come tale la dobbiamo anche saper trattare. Miracolo della
poesia, uno dei tanti: far brillare la spazzatura come un dia-
mante. Il che, tra parentesi, è riuscito benissimo a un poeta
come il genovese Nicola Ghiglione.
Basta riflettere un attimo, sfogliare una storia o un’antolo-
gia letteraria per rendersi conto che a ogni pie’ sospinto la po-
esia, femmina e come tale incostante, ha cambiato look e im-
provvisamente qualcosa che fino ad allora era stato “di moda”
improvvisamente ha cessato di esserlo. Perciò: bisognava essere
simbolisti o avanguardisti? manieristi o surrealisti? ermetici o
crepuscolari? stilnovisti o metafisici? poetare in rima o in verso
libero? scrivere in prosa d’arte o in versi?
Ma come si può allora coniugare tutto questo con un pre-
teso valore “assoluto” della poesia? Allora la poesia cos’è? Ap-
partiene alla Storia o all’Eternità? Secondo me la si può pa-
ragonare al mare, che in superficie ha a volte ondine appena
increspate, altre volte cavalloni, onde lunghe, vortici e correnti
ma, sotto quella sua superficie di continuo cangiante, nella
profondità è immobile e sempre uguale a se stesso e ospita con
imparzialità mostri e meraviglie. Quindi, per esempio, anche
la poesia della Bemporad potrebbe riaffiorare al termine di
un’ondata impietosa che l’ha sommersa.
Così questo già si può dire, sul tema dei “poeti in ombra”:
che l’ombra per quanto riguarda i poeti è spesso intermittente.
E che quasi tutti i poeti – anche i più famosi – attraversano
periodi in cui sono “in ombra”, la loro fama ha delle eclissi
in cui la dimenticanza vela le loro pagine come l’ombra della
Terra ricopre di un cono d’ombra la faccia della luna. E queste
eclissi possono durare anche un secolo o più.
Non ne è stato esente nemmeno Dante, che non di rado
fu oggetto di scarsa considerazione da parte di critici italia-
ni e stranieri. Un letterato influente come il cardinale Pietro
Bembo, che, nel Cinquecento, si propose di codificare la lin-
gua italiana, escluse Dante dal novero dei modelli letterari,
privilegiando invece il Petrarca. Nemmeno la Controriforma
fu favorevole al sommo poeta, di cui venne addirittura mes-
so all’indice, per ragioni politiche, il trattato De Monarchia.
Nel Seicento e nel Settecento, con l’eccezione di Giambattista
Vico (il suo Giudizio sopra Dante è del 1729) Dante fu ad-
dirittura ignorato, se non spregiato, e solo il Romanticismo
riaccese l’interesse nei suoi confronti. Anche in tal caso questo
dipese più dalle circostanze e dalle ragioni della Storia che dal-
la critica letteraria, poiché il suo messaggio politico si sposò
agli ideali del Risorgimento attraverso Foscolo e Mazzini. Ma
bisogna aspettare l’Ottocento perché il De Sanctis dia al poe-
ta una consacrazione che ormai si può considerare definitiva.
Oggi Dante e la sua Commedia sono saliti agli onori anche
dei fumetti e dei videogiochi, se questo sia un bene non si sa.
La Bemporad quindi può ben aspettare, il tempo può essere
infine dalla sua parte.
In Italia però il cono d’ombra si stende anche troppo fa-
cilmente sui poeti morti. Se si tratta di poeti antichi, illustri,
in qualche modo consacrati, quest’ombra non si vede, sembra
non esserci: ma, a guardar bene, tranne qualche rara eccezio-
ne, forse solo il Petrarca, di fatto nessuno li legge, se non per
ragioni di studio, e quindi non solo l’ombra ma addirittura il
buio li circonda. Dell’Ottocento c’è una sola grande eccezio-
ne, grazie anche alla scuola, ma forse anche al fatto che siamo
tutti sempre più inclini al pessimismo, se non alla dispera-
zione: il Leopardi. Più vicini a noi, sempre molto grazie alla
scuola, il Pascoli, ondivago il d’Annunzio, e poi naturalmente
Ungaretti, Quasimodo, Montale la triade perfetta del Nove-
cento, tre poeti diventati inseparabili nelle citazioni anche se
nella vita non si potevano vedere.
Però che cosa succede quando ci avviciniamo di più ai tem-
pi nostri? Quando non ci sono eredi, muse ispiratrici, disce-
poli fedeli a sostenere la memoria? La morte del poeta diventa
per lo più un nero abisso in cui egli sprofonda insieme ai suoi
testi. Di Alfonso Gatto, grande poeta, fino a qualche anno fa
si poteva trovare pubblicato solo un suo libro di poesiole per
bambini. Poi finalmente gli è stato dedicato dalla Mondadori,
che di fatto detiene i diritti, un Oscar, non mi risulta un ben
più prestigioso Meridiano. Chi si ricorda di Lucio Piccolo,
di Sinisgalli, di Cattafi? Della Margherita Guidacci? Il poeta
morto, contraddicendo forse Ezra Pound, è da noi normal-
mente oggetto di un periodo di oscurità più o meno lungo,
che in molti casi tende a diventare definitivo. Ben lo sapeva
Montale, che è stato un poeta anche ironico, e che predispo-
se, prima di morire, una sorta di caccia al tesoro, che affidò
alla sua ultima ispiratrice, Annalisa Cima, la quale ogni cin-
que anni doveva aprire una busta che conteneva degli inediti.
Così per alcuni anni, ogni cinque anni, Montale ritornava in
vita, era presente, si faceva sentire, era quasi come se non fosse
morto. Ma non tutti sono così previdenti.
La previdenza di Montale è una dimostrazione del fatto che
tuttavia anche dopo la morte non tutto è affidato al caso, che
anche in questa circostanza il poeta può fare qualcosa per non
entrare o restare in ombra e che, più in generale, lasciare degli
eredi è indispensabile, anche se capita purtroppo che gli eredi
di sangue approfittino della scomparsa del caro e famoso estin-
to per regolare in silenzio dei conti lasciati in sospeso, magari
impedendo l’accesso all’archivio che racchiude preziose testi-
monianze e manoscritti inediti. Per contro, ci sono vedove che,
loro sì, hanno vissuto fino ad allora una vita nell’ombra, spes-
so sfruttate come segretarie e soffocate dall’illustre coniuge, le
quali, dopo la sua dipartita, diventano attivissime e arrivano a
vivere finalmente una gloria in prima persona, pur sempre glo-
ria riflessa, ma anche illuminata da qualche riflettore. A volte
le vedove sono due, una ufficiale e una clandestina, che si con-
tendono la fama del morto, il quale però in genere, non aven-
do scelto in vita, prudentemente, fra l’una e l’altra, ha pensato,
sempre per prudenza, che fosse più sicuro e più facile che tut-
to il prezioso materiale che lo riguardava restasse affidato alla
protezione dei lari domestici e quindi anche dopo la morte la
lotta fra la vera e la pretesa vedova rimane una lotta impari,
ancorché questa concorrenza, e qualche pettegolezzo, possano
alimentare quelle maldicenze che della fama sono l’auspicabile
coronamento. Si dà poi anche il caso del poeta la cui fama era
in parte dovuta all’esercizio di un potere che gli consentiva di
elargire benefici a una vasta schiera di cortigiani: in questo caso
la sua morte sarà seguita dal dispettoso silenzio di coloro che
hanno visto venir meno una disponibile mangiatoia poetica.
Ci sono tuttavia, in questo rapporto fra il poeta e la morte,
come sempre, anche vistose eccezioni, anzi vistosi rovescia-
menti: nessuna fama in vita e grande fama dopo la morte. La
prima di queste eccezioni cui viene fatto di riferirsi è quella
di Antonia Pozzi, la quale non aveva soltanto rinunciato alla
fama, non avendo mai pubblicato, bensì alla stessa vita, ma
la cui poesia oggi travalica il ristretto gruppo degli specialisti
per arrivare eccezionalmente a un pubblico relativamente va-
sto. La sua vicenda fa in qualche modo pensare a quella della
Dickinson, che a sua volta non pubblicò mai in vita (anche
se sembra che avrebbe voluto farlo, ma non ci riuscì), visse
da reclusa e oggi è una delle poetesse più famose al mondo.
Un’altra eccezione è quella di Alda Merini, che anche dopo la
morte continua a essere letta, pubblicata, citata e a fare noti-
zia. Anche nel caso di Alda Merini non si può dire che avesse
cercato la Fama: sono stati gli altri a cucirgliela addosso. In
lei c’erano gli elementi per farne un personaggio e ne è stato
fatto un personaggio. Lei ci si prestava volentieri, perché era
sufficientemente istrionica, ma i suoi eccessi non erano finti.
Tuttavia, se la Pozzi non si fosse uccisa per un amore infeli-
ce, se suo padre non fosse stato una figura oppressiva e castran-
te, se la Dickinson non avesse vissuto chiusa nella sua stanza
vestita di bianco come una suora della poesia, se la Merini non
avesse pubblicato una sorta di diario del periodo di reclusio-
ne in manicomio pochi anni dopo l’approvazione della legge
Basaglia, la loro poesia avrebbe destato, desterebbe oggi altret-
tanta attenzione? Lo stesso si può dire per un’altra poetessa
suicida, Sylvia Plath. Allora ci si può chiedere: la poesia è un
testo? solo un testo? o vale in quanto è la voce di un’anima? la
traduzione in linguaggio di un’avventura umana?
Infinite domande suscita dunque il tema dei poeti in om-
bra. Un tema pressoché infinito, perché si pone da tante di-
verse angolazioni.
Certo oggi viviamo in un’epoca in cui il personaggio conta
spesso più di un testo. E allora molti che vogliono acquistare
fama di poeti cercano, più che di lavorare sulla scrittura, quel
personaggio di inventarselo. E così ecco quello che finge di
essere un barbone e vive in una baracca, quello che si mette un
cappello di paglia uguale a quello di Hemingway, quello che
professa a gran voce di voler restare in ombra e acquista per ciò
stesso grande visibilità.
Ci si può chiedere anche: oggi in che cosa consiste la fama
di un poeta? Si tratta di un giudizio di valore letterario o è
sempre di più un’immagine che si forma in un caleidoscopio
di continuo roteante davanti ai nostri occhi?
Questi due aspetti per ora rimangono ancora un po’ sepa-
rati, ma è evidente che sta sempre più venendo meno il riferi-
mento di un giudizio critico sicuro, affidabile, come accadeva
ancora qualche decina di anni fa, per cui chi scriveva poteva
dirsi che, se il suo lavoro fosse stato preso in considerazione
da tale o tal’altro critico, egli avrebbe potuto legittimamente
aspirare a ottenere un suo posto, più o meno importante, nel
panorama letterario e questo panorama letterario si sarebbe
magari dilatato fino a divenire storia della letteratura. Oggi
è sempre meno così, il riferimento critico è diventato sem-
pre più vago, casuale, inconsistente, sostituito spesso com’è da
amicizie e appartenenze, da recensioni ottenute in cambio di
favori, mentre, in una sorta di circo barnum senza controllo
e in continua espansione in cui tutto è sovraesposto, restare
in ombra viene considerato sempre più penalizzante. Perciò
poeti e aspiranti poeti fanno di tutto, per lo più, per acquistare
una fama che non sempre corrisponde a effettivi meriti in una
società dove il successo sui social, che non può essere certo
garanzia di qualità, ingolosisce anche i grandi editori i quali, a
loro volta, pensano spesso più a vendere che a fare cultura. Ed
ecco allora che si mette in moto tutto un sistema di riferimenti
che va dai premi, ai reading, ai festival, alla cronaca e alle varie
apparizioni sui media, soprattutto in quella sorta di salotti che
sono i social: un’attività che richiede da parte dell’interessato
grande impegno di tempo e di energia, così che forse poco
ne resta per la letteratura, e anche una vocazione, più che da
poeta, da promoter, da manager, da addetto stampa. È vero
che anche in passato i poeti, anche i più grandi, frequentavano
i Salotti, ma erano salotti dove, in un sol colpo, si trovavano
riunite le più belle teste dell’epoca e dove si esercitava ad altis-
simo livello l’arte della conversazione. Dagli scambi sui social
deriva invece un certo scadimento di qualità di tanta produ-
zione poetica attuale, un appiattimento verso il basso e perfino
un imbarbarimento della lingua, e soprattutto un’inflazione di
scriventi che si arrogano un titolo di poeta a cui non dovreb-
bero poter pretendere e si impadroniscono di piccole o grandi
posizioni di potere per farlo valere.
D’altra parte questa smania, da parte di persone tutto som-
mato comuni, di emergere, di avere successo, di farsi un nome
attraverso un atto massimamente individuale come la crea-
zione poetica, forse la si può anche capire – volendo trovare
una giustificazione al fenomeno – come una reazione un po’
squallida a un mondo in cui sempre di più assistiamo all’o-
mologazione, alla progressiva cancellazione della persona, non
più individuo ma mero numero, mero codice da digitalizzare.
Chi sono quindi in conclusione oggi i poeti in ombra?
Sono i poeti che per carattere, sfortuna o incapacità di pro-
muoversi non riescono a diventare famosi. Conosco anche
chi, forse un po’ snobisticamente, non vuole diventarlo. A
volte – raramente – si tratta di un rifiuto inconscio. Un caso
emblematico è quello della grande poetessa romana Fernanda
Romagnoli, morta nel 1986 all’età di 70 anni, che raggiunse
tardivamente la fama solo nel 1980, una fama che subito si
spense con la sua morte, come una stella filante, e che, in dieci
anni di faticosi tentativi editoriali, cercai di ravvivare, riuscen-
doci solo in parte, nel 2003, facendola finalmente ripubblicare
da Scheiwiller. Si è trattato però per me più che di lottare con
gli editori, di lottare con la sua anima, con il suo desiderio di
autopunizione, di espiazione per quella che il suo inconscio
certo considerava una colpa, un venir meno ai doveri di una
vita banale di casalinga dedita solo alla famiglia.
Ma ci sono anche poeti in ombra perché per loro essere
in ombra è un destino, magari un non facile destino, forse
addirittura una consapevole scelta. Poeti di cui non farò qui i
nomi, e che mi paiono spesso i migliori che si possano leggere
fra quelli operanti oggi, uno in realtà – di lui farò il nome –
recentemente scomparso, Sandro Boccardi, musicologo, con-
tadino della Bassa Padana nel cuore, che aveva impersonato
Bach in un documentario indossando una parrucca di boccoli
bianchi che al compositore tedesco lo faceva assomigliare mol-
tissimo, come venisse anche lui dal lontano Settecento, autore
di una poesia dal linguaggio attualissimo nella forma musicale
del sonetto. Questi poeti “in ombra” hanno in comune il fatto
di essere, loro sì, quella cosa rara che è un poeta vero.
Che cosa li distingue? Lo starsene appartati, lo scrivere una
poesia metafisica, che riflette cioè un’idea alta dei valori dello
spirito – il che certo oggi è un andare controcorrente e già
questo ne fa dei diversi, degli isolati – , essere quindi “fuori
moda”, incuranti di gruppi e ideologie, privilegiare il silen-
zio esterno e il silenzio interiore, la lettura come ginnastica
dell’anima, la musica, il bosco come natura e come metafora.
Poeti che, da quella prospettiva, scendendo in profondità, ri-
tengono che si possa dar voce anche al dolore, allo spasimo,
all’urlo di Munch, soprattutto alla pietà per la follia dell’uo-
mo che, come una metastasi, divora la nostra vita. Poeti che
hanno una giusta stima di sé unita a una giusta modestia e
sanno mettersi in rapporto con gli spiriti del mondo per lo
più ostili all’uomo, come credevano gli antichi sciamani, poeti
che sono ancora essi stessi un po’ sciamani e credono di poter
dare conto – muovendo dal silenzio – anche del fragore, della
distruzione, dell’allontanamento dalle leggi della Natura, della
progressiva cementificazione della terra, della desertificazione
e delle frane, dell’imbarbarimento della musica, dello snatura-
mento della virtù, dell’annientamento delle anime e dei corpi,
del grottesco e tragico orrore della miseria fisica e spirituale,
di quella angosciante realtà che troviamo nei Canti Civili di
un poeta non accademico, non inserito nel sistema, e pertan-
to vero poeta, poeta in ombra quant’altri mai, e per questo
dimenticato, e per questo da riscoprire e da ricordare, come
appunto è stato Nicola Ghiglione.

 

 

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Le emozioni della poesia

Ripubblico qui il mio saggio contenuto nel libro, relativo al rapporto fra le emozioni e la poesia:

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DONATELLA BISUTTI

LE EMOZIONI DELLA POESIA

  Che cosa sono le emozioni?  Possiamo dire che le emozioni sono il modo in cui interagiamo con  il mondo, cioè con tutto ciò che sta fuori di noi.  Un modo che non è gestito dalla parte razionale del nostro cervello, ma innanzitutto dal nostro corpo. Il rapporto fra corpo ed emozioni è strettissimo. Le sensazioni sono il modo in cui il nostro corpo comunica con la nostra mente. Se proviamo una sensazione piacevole, avremo un’emozione positiva, se invece è spiacevole, la nostra emozione sarà negativa.

  I nostri stati d’animo saranno la risposta a queste emozioni positive o negative: proveremo allora allegria o tristezza, malinconia o gioia, entusiasmo o dolore e così via. E quando gli stati d’animo durano più a lungo diventano sentimenti. Tutto questo viene elaborato dalla nostra mente soltanto in un secondo tempo. Il ripetersi di un’emozione gradevole farà nascere in noi attaccamento e amore  per quella cosa o persona che l’ha provocata; il ripetersi di un’emozione sgradevole farà nascere  al contrario un sentimento di antipatia, disgusto, rancore, odio.

   Si dice che  l’organo che gestisce e vive intensamente le nostre emozioni è il nostro cuore, ma prima di arrivare al cuore le emozioni devono passare per i nostri cinque sensi. Se non avessimo nessuno dei nostri sensi, non potremmo provare nessuna emozione, il mondo per noi non esisterebbe e la nostra mente potrebbe tutt’al più funzionare come un computer.

   I nostri sensi, soprattutto la vista e l’udito, ma anche  l’olfatto e il gusto e  tutta la superficie della nostra pelle, ricevono  degli stimoli dall’esterno e  le emozioni sono il loro modo di reagire a questi stimoli. Dobbiamo imparare a non considerare il nostro corpo solo come qualcosa che ci fa stare bene o ci fa stare male, qualcosa che  ci portiamo in giro e che ci serve come uno strumento con cui possiamo  mangiarci un panino o scalare una montagna, qualcosa che è come un oggetto che possiamo vestire, adornare, abbellire per mostrarlo agli altri e magari affascinarli. Non è così, o non è soltanto così. Il nostro corpo non è solo uno strumento e non è un oggetto: è  anche un soggetto che dice “io” alla stessa stregua della nostra mente. Per un bambino molto piccolo il corpo è il solo modo di conoscere il mondo. Lo conosce toccando e mettendosi gli oggetti in bocca, facendoli cadere per terra, rompendoli. Il nostro corpo è dunque qualcuno che impara a conoscere il mondo a modo suo, e questo  modo lo dobbiamo considerare anche più importante di quello che consiste nel tradurlo in concetti con gli strumenti logici del nostro cervello. La felicità infatti ci può venire solo da questa conoscenza attraverso il corpo, cioè da un’interazione emozionale  con gli altri e con l’ambiente che ci circonda, non dall’uso di un computer. Se noi restringiamo la nostra conoscenza del mondo a un computer  è difficile che possiamo essere felici. Vedere per esempio un bosco in un’immagine, anche se perfetta, non sarà mai come attraversarlo a piedi sentendo intorno a noi  il frusciare dei rami, la carezza dell’aria, l’odore del muschio e dei funghi nascosti, il mistero delle ombre profonde, il vibrare dell’erba al passaggio furtivo di uno scoiattolo, il mormorio di un ruscello che lo percorre. E insieme  la sensazione di  fatica mentre camminiamo, l’attenzione che dobbiamo avere nel muovere i passi  fra le pietre e il terriccio del sentiero e magari l’indolenzimento dei nostri piedi. Senza  questa serie di sensazioni e di emozioni che da queste sensazioni derivano non avremo mai conosciuto il bosco. E invece in questo modo il bosco si imprimerà così profondamente prima di tutto nella memoria del nostro corpo che diventerà in qualche modo parte di noi  e di questa conoscenza che ne abbiamo avuto ci potremo ricordare anche a distanza di anni e riprovare quel senso di felicità, di stupore, di meraviglia e magari anche un po’ di paura  che abbiamo provato allora.  Questo arricchisce la nostra vita.

   Certo possiamo provare delle emozioni anche vedendo  delle immagini, un film, un video, però sono emozioni incomplete, alle quali il nostro corpo partecipa poco e per questo si tratta di emozioni che in genere  svaniscono rapidamente perché non ci appartengono davvero, non sono davvero “nostre”, bensì sono emozioni create da altri, che noi per qualche attimo prendiamo a prestito. Dobbiamo stare attenti a non lasciare troppo spazio a questo tipo di emozioni perché sono corpi estranei che si  installano, invadono la nostra mente senza passare per i nostri sensi e la abituano a vivere di surrogati di emozioni reali che sono come un cattivo cibo, a vivere una vita che non è la nostra. Queste emozioni artificiali non ci danno dei ricordi veramente nostri ma ci manipolano, ci condizionano, mentre il nostro corpo rimane inattivo , quasi immobile, quasi inutile e, lì seduto, per compensare la sua frustrazione spesso  si nutre in maniera compulsiva di altro cattivo cibo, finché diventa obeso e si ammala.  Più ci allontaniamo da emozioni vere,  più la nostra vita diventa simile a quella di un robot che sa tutto, prevede tutto, organizza tutto, ma non sente niente. 

   Quanto le emozioni abbiano a che fare con il nostro corpo lo si può vedere facilmente. Infatti ci sono emozioni che ci fanno diventare le guance rosse come pomodori, oppure altre che ci fanno diventare bianchi come stracci. Emozioni che ci fanno tremare le mani, oppure drizzare i capelli in testa. Altre che ci fanno balbettare, altre ancora che ci prosciugano la saliva, o addirittura ci impediscono di parlare. Emozioni che ci fanno ridere irrefrenabilmente, oppure piangere a dirotto. E ancora: ci fanno battere i denti, ci fanno sudare, ci fanno venire la pelle d’oca, oppure il singhiozzo. Quanti strani effetti ci può fare un’emozione! Può farci ballare, saltare, ci può far emettere una quantità di suoni diversi: oooh se vediamo qualcosa di strano e di meraviglioso, ahi se ci fa male da qualche parte, aah se qualcosa ci fa paura.   

    Le emozioni per definizione ci coinvolgono, le proviamo quando non possiamo restare indifferenti. Qualcosa di noioso non ci dà invece nessuna emozione, a meno di non voler considerare un’emozione anche uno sbadiglio. Senza emozioni la nostra vita sarebbe un seguito di sbadigli.

    E’ vero però che non tutti sentono le emozioni  con la stessa intensità, anzi ci sono alcune persone che non le sentono affatto. Il modo in cui una persona sente le emozioni  lo chiamiamo “carattere”. E’ come se ciascuno di noi avesse dentro  uno speciale termometro che misura le emozioni come si misura la febbre. Ci sono persone in cui la febbre non sale mai, questo termometro ce l’hanno sempre basso, segna magari 8 o 9 gradi: si dirà allora che hanno un “carattere freddo”. Sono simili a dei frigoriferi: qualsiasi cosa gli metti dentro si raffredda o, se viene inserita nel reparto freezer, addirittura si  gela. Qualsiasi cosa gli succeda, queste persone non danno mai segni di emozione: rimangono impassibili.  Questa è da alcuni considerata una grande qualità. In effetti va molto bene se uno vuol diventare uno 007 che affronta senza batter ciglio qualsiasi pericolo. Però queste persone hanno dei rapporti difficili con gli altri: gli altri sentono questo freddo che loro hanno addosso e subito hanno voglia di infilarsi un golfino e siccome devono andare a prenderlo, si allontanano con una scusa e poi incontrano qualche amico per strada e non tornano più. D’altra parte  ci sono anche persone il cui termometro sale velocissimo e diventa subito bollente: queste persone hanno sempre emozioni esagerate, per esempio gli basta pochissimo per arrabbiarsi, si arrabbiano per delle stupidaggini, magari perché un’altra macchina va più veloce di loro e li sorpassa o perché qualcuno occupa prima di loro un parcheggio, oppure si mettono subito a piangere se perdono una partita a calcetto.

    Sono persone che si fanno travolgere dalle loro emozioni: è come se andassero a cavallo e quando il cavallo si mette a un galoppo sfrenato non riescono a trattenerlo, cadono dalla sella e qualche volta possono anche rompersi la testa. Anche queste persone hanno pochi amici perché fanno paura o sono fastidiose per gli altri. Però ci sono anche quelli che hanno cosi paura che la temperatura del loro termometro si alzi troppo e gli faccia venire la febbre che appena la sentono salire subito vanno a farsi una doccia e così si raffreddano e il termometro scende. Magari sono proprio le stesse persone che ci sembrano impassibili. Ma a forza di passare dal caldo al freddo alla fine si sentono male e devono andare dal dottore  Esistono infatti dei dottori delle emozioni che si chiamano psicoanalisti o psicoterapeuti , i quali aiutano queste persone a regolare i loro termometri. Un’operazione tuttavia lunga e faticosa.

   Ma il punto è proprio questo: che cosa dobbiamo fare con le nostre emozioni se sono troppo forti? Dobbiamo lasciarci trascinare oppure puntare i piedi per non essere trascinati?

   Abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni come vivere al meglio le nostre emozioni. Un assessore alla cultura  nel corso di un recente convegno cui ho partecipato si chiedeva: “Un’educazione all’emozione è possibile?” Io credo di sì: non solo  è possibile,  ma è necessaria.

   Finora ciascuno era lasciato ad arrangiarsi da solo. Questo può creare  come abbiamo visto molti problemi, molte difficoltà. C’è chi ha la vita rovinata  per via di una cattiva gestione delle emozioni, soprattutto nei rapporti con gli altri, specialmente nei rapporti d’amore, che di emozioni ce ne danno tantissime. La gelosia, la rabbia e l’odio sono emozioni che possiamo provare facilmente e da cui spesso non sappiamo difenderci. 

    L’emozione è una forma di energia, un aumento di energia dentro di noi. Ma questa energia abbiamo visto che non ha sempre un segno positivo: dipende da quello che ci succede. Ci sono energie con il segno meno, energie negative. Sono queste soprattutto che ci mettono a rischio, benché a volte anche un eccesso di entusiasmo possa diminuire la nostra attenzione e farci andare a sbattere contro un muro. Ma certamente sono le energie negative a metterci più in difficoltà:  quelle che  si sprigionano da una paura, un dolore, una perdita, un pericolo.  

     Tuttavia noi non dobbiamo cercare di cancellare le nostre emozioni per far scendere il termometro. Non dobbiamo bloccare la nostra capacità di emozionarci. Le emozioni sono molto importanti. Sono loro a farci sentire vivi. Le emozioni sono i movimenti del nostro cuore. Ed è il cuore che ci fa vivere. Non siamo solo cervello.“Cuore” significa la nostra immaginazione, la nostra fantasia, i nostri sentimenti, sogni, desideri: non possiamo rinunciare a tutto questo senza perdere la ricchezza della nostra vita.

  Che cosa  fare allora con le nostre emozioni? Educazione all’emozione vuol dire non lasciarsi andare in balia delle emozioni perché un’emozione che sia fuori controllo può distruggerci. Vuol dire accettare di viverle, ma anche capire che questa energia possiamo trasformarla :in qualcosa che ci aiuti a vivere meglio.

  Abbiamo visto che l’emozione è un movimento che va dall’esterno, da ciò che accade al di fuori  di noi, verso il nostro interno: in questo movimento noi siamo in un primo momento passivi, lo subiamo come un’energia che non ha avuto origine in noi. Ma se  decidiamo di portare consapevolmente questa energia verso l’esterno volgendola dal negativo al positivo, dal segno meno al segno più, ecco che avremo ripreso il controllo e saremo diventati dei soggetti attivi in grado di utilizzare al meglio il suo potenziale. L’energia infatti di per sé non ha alcun segno: siamo noi  che possiamo renderla positiva o negativa . E in questo consiste la nostra libertà e la capacità di guidare verso il successo la nostra vita. Non butteremo via tutto quel potenziale, vi pare?

   E’ a questo punto che la poesia può indicarci la giusta direzione. A questo rapporto fra poesia ed emozione ho dedicato anni di studi e di riflessioni e diversi libri, aprendo la strada, credo, a un nuovo approccio con la poesia.

  La poesia può essere la chiave più preziosa per un’educazione all’emozione. Perché? Perché anche la poesia ha a che fare con le emozioni. Una poesia che ci  trasmetta solo concetti non è una poesia degna di questo nome. La poesia non è un saggio, una narrazione, un trattato di filosofia o di scienza: attraverso le parole essa ci vuole trasmettere un’emozione. Il significato della poesia non può essere compreso attraverso la pura e semplice spiegazione di quello che le sue parole “vogliono dire” – allora perché si dovrebbe scrivere una poesia? Basterebbe scrivere in prosa! E come ce la trasmette l’emozione? attraverso delle sensazioni, proprio come accade nella nostra esperienza. Anche la poesia è in questo senso una forma di esperienza: ci trasmette infatti anch’essa delle sensazioni. Ci trasmette l’emozione del poeta non raccontandola, ma creando le condizioni per cui la possiamo provare direttamente anche noi insieme a lui.  Il suo è l’unico linguaggio verbale capace di trasmettere un’esperienza, proprio perché si serve delle sensazioni.  Perciò ci permette di esprimere le nostre emozioni  partendo da ciò che le ha originate, sia che leggiamo sia che scriviamo. Solo così esse diventano trasmissibili, e il fatto di poterle trasmettere è qualcosa di essenziale. Anche la poesia infatti trasforma le sensazioni in stati d’animo, perché anche la poesia, prima che per la mente e per il cuore, passa per il corpo. Questo potrà sembrare strano a chi ha sempre pensato alla poesia come a qualcosa di etereo, spirituale e smaterializzato: una concezione che affonda le sue radici in una lunga tradizione retorica che ne ha completamente travisato  la natura. Infatti la poesia è linguaggio e il linguaggio dove nasce? Nel corpo e dal corpo. Il linguaggio del corpo, fatto di semplici suoni, è il linguaggio originario, quello che ogni bambino piccolo riscopre. Le più antiche parole della lingua ne mantengono  le tracce  perché spesso la loro etimologia ormai dimenticata è onomatopeica cioè riproduce dei suoni della  natura, degli animali, degli oggetti.  O anche dei ritmi, dei movimenti. Abbiamo ragione di pensare che il linguaggio abbia avuto origine dalle emozioni e sia nato per esprimere emozioni. Ne rimangono tracce nelle esclamazioni che riempiono ancora anche le pagine attualissime dei fumetti.

   La poesia è ancora oggi un “linguaggio del corpo”. E’ l’unica forma di scrittura che abbia conservato questo rapporto preciso ed essenziale con il corpo, un linguaggio fatto di suoni, di onomatopee, di ritmi e soprattutto di sinestesia:  La poesia è un orecchio , come dice il titolo del mio libro uscito da Feltrinelli nel 2012 , che recupera attraverso un ascolto dei suoni e una “lettura emozionale” i grandi classici della nostra poesia, da Leopardi a Luzi. Questo libro contiene una analisi accurata, nei singoli testi, dei modi e delle caratteristiche di questo linguaggio sensoriale/emozionale e ad esso rinvio per entrare in modo più approfondito nella specificità del “linguaggio del corpo” che contraddistingue la poesia. Farò solo un esempio prendendo spunto da una poesia che avevo scelto nel libro, di Corrado Pavolini, intitolata Ragazzo negro, e che riporto qui:

Qua la mano, fratello.

Come amo il tuo spaurito cuore,

la forma del tuo cranio,

il tuo paradiso perduto.

Con le tue stesse spazzole

curvo su eguali scarpe

lucido insieme a te

con servil cura, sudando,

il mio terrore dei bianchi,

guardo riflesso nel cuoio

questo me maledetto.

Allegro è il sole, cantano

uccelli e clakson e noi

siamo neri, fratello.

     Vorrei soffermarmi sul finale, sugli ultimi tre versi. Sulla singolare musica che risulta dal mescolarsi delle note indisponenti e “innaturali” dei clacson alle note allegre  del cinguettio degli uccelli, che invece ci parlano  di sole e di vita: da questo mescolarsi ma anche contrapporsi risulta un canto allegro ma al tempo stesso un po’ stridente,  ed è proprio questo suono discorde a “dirci” lo “stridente”contrasto fra un ideale di fratellanza e una realtà di discriminazione. Tutto questo non è dichiarato, ci arriva solo attraverso la “sensazione” di un particolare tipo di suono, una sensazione di stridore, che si trasforma subito in emozione, trasmettendoci  l’esperienza di quell’assurdo malessere, quel senso di esclusione che prova il poeta: siamo lì con lui, e la proviamo anche noi, essa entra nel nostro cuore ben più profondamente che  se  ci fosse stata “spiegata”con tante parole. E’ così che funziona il linguaggio della poesia.

   Ma che cos’è la sinestesia?   Secondo l’etimologia, la sinestesia , che unisce  in una stessa immagine sensazioni diverse,  significa  “percepire insieme”  e quindi anche, per estensione, “mettere insieme”.  Sinestesia è dire per esempio “un suono freddo” (udito + tatto) o “ un rosso piccante” (vista + gusto). Sinestesia è, in senso lato, il linguaggio stesso della poesia, che non solo connette sensazioni di diversa provenienza, soprattutto colore e suono (diceva il grande poeta portoghese Texeira de Pascoaes:  “Il  suono è lo spirito del colore” ) , ma nelle metafore “mette insieme” le cose apparentemente più lontane. La scintilla che provoca questi cortocircuiti è però sempre l’intensità dell’emozione che il poeta ci vuole trasmettere.

  La poesia è quindi un Linguaggio delle Emozioni. che usa le parole in modo diverso da tutti gli altri linguaggi fatti di parole: le usacome se esse fossero soltanto sensazioni, suoni, colori, ritmi, forme. Le usa come un musicista usa le note e un pittore usa le matite e i pennelli. Le parole usate in questo modo sono quelle capaci di farci vivere un’emozione. Così una poesia ci fa vivere l’emozione del poeta che l’ha scritta. Essa diventerà anche la nostra emozione. E questa emozione sarà il suo vero e completo significato. Per questo la poesia è importante e necessaria alla

nostra vita: essa ci ricorda di continuo che non dobbiamo solo “ragionare” ma anche “sentire” . Naturalmente le “sensazioni” che la poesia ci trasmette sono immaginarie, cioè sollecitano i nostri sensi  attraverso l’immaginazione: le immagini che “vediamo” si formano nella nostra mente, così come i suoni  che essa evoca – suoni del traffico di una città, suono delle onde del mare, suoni dei canti degli uccelli – così come sono immaginari gli odori e i profumi e le sensazioni tattili che percepiamo, ma che non sono per questo meno “reali” in quanto esse agiscono “realmente” sulla nostra sfera psichica. In questo modo la lettura di una poesia diventa una “esperienza” e attraverso questa “esperienza” l’emozione che le ha dato origine rinasce e si trasmette, non raccontata, ma vissuta, condivisa tra il poeta e il lettore. La poesia ci insegna così anche a giocare con la nostra immaginazione, ad attivarla, a mettere nel testo del poeta qualcosa di nostro.

     La cosa più importante, riguardo a una “educazione all’emozione”, è questa possibilità che ha la poesia di trasmettere un’emozione in quanto tale, di condividerla.

La poesia ci insegna quindi prima di tutto che un’emozione si può esprimere,  e questo è il primo modo per diventare, da individui che subiscono passivamente,  soggetti attivi. Tutta l’energia che una emozione ci suscita non possiamo infatti tenercela dentro: come un pallone troppo gonfiato, essa rischia di farci “scoppiare”, crea un ingorgo che ci fa male. Dobbiamo esprimerla , riportandola fuori di noi, e non bastano per questo poche esclamazioni, ci vuole qualcosa di più articolato del limitarsi semplicemente a ridere e a piangere. Esprimerla vuole dire comunicarla agli altri, condividerla. Condividerla non è  la stessa cosa che raccontarla. La fisicità infatti non si  può raccontare, bisogna sperimentarla. Perciò la poesia con il suo linguaggio fatto di sensazioni corporali è l’unica che ci permette  di trasmettere agli altri le nostre sensazioni ed emozioni più profonde aprendo un varco in quel muro che separa noi umani uno dall’altro, quel muro di solitudine e di incomunicabilità che fece scrivere a Salvatore Quasimodo il famoso verso: “ Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole.”  Questo muro di separatezza non si può totalmente abbattere  ma  attraverso quel varco si  può magari infilare un braccio e stringere la mano di un altro che ci è vicino.

  Per lo stesso motivo scrivere noi stessi una poesia ci può aiutare, esprimendole e condividendole con gli altri,  a superare emozioni dolorose e in questo senso ci può “salvare la vita” come dice  il titolo di un altro mio libro, titolo ispirato alla vicenda reale dell’architetto Belgioioso che  riteneva di essere riuscito così a sopravvivere agli orrori del campo di concentramento nazista in cui era stato per anni rinchiuso.

   Ma c’è  un altro motivo per cui la poesia ci  può fare da maestra per un’educazione all’emozione. Infatti essa non si limita solo a farci esprimere e  condividere l’esperienza di un’emozione, ma la trasforma. La trasforma in un oggetto di bellezza,  cioè la singola poesia stessa : una poesia si propone infatti di realizzare, a partire da un’esperienza e da un’emozione, attraverso i suoni e le immagini, una perfezione di bellezza. Un “oggetto”  compiuto in sé secondo regole di composizione e di metrica, rime o assonanze,  ritmi  e sospensioni, simili a quelle di una partitura musicale. Una bella poesia può essere paragonata a una sonata, un poema a una sinfonia. La poesia per sua vocazione tende alla bellezza e quando la raggiunge è questo quel segno meno che si trasforma in più: un grumo di dolore che si trasforma in armonia, attraverso un atto di creatività. Chi scrive una poesia dà una forma alla sua emozione come un vasaio dà forma a un vaso.  

   Così facendo la poesia ci indica anche una strada  più ampia, come la stella polare ci indica la rotta verso nord: appunto la strada della creatività, anche al di fuori della poesia stessa: è questa anche più in generale la strada per  vivere bene le nostre emozioni  trasformandole in qualcosa di più grande, in un’armonia che non rimanga confinata nel nostro io ma si apra verso gli altri e doni loro qualcosa con cui possono a loro volta arricchire la loro vita. 

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Ada Negri

Un Femminicidio Culturale

Ada Negri, 1870 – 1945

Il saggio che pubblichiamo qui è la relazione che è stata fatta al Convegno su Ada Negri, E’ Possibile Vivere Soltanto di Poesia che si è tenuto a Lodi il 15 Febbraio 2020 in occasione dell’anniversario di 150 anni dalla nascita. Il Convegno è stato coordinato dal dottor Tino Gipponi.

E’ appena uscito nella collana Oscar Moderni Baobab Mondadori un volume a cura dello studioso e poeta Pietro Sarzana, che raccoglie la più gran parte dell’opera di Ada Negri in versi e in prosa in più di 900 pagine, riportando alla luce una scrittrice dimenticata:

Il mio intervento verterà sulla poesia di AN e innanzitutto su come la poesia di AN si situi nel suo contesto storico. Tenterò poi di indagare le ragioni del silenzio che l’ha penalizzata dopo la sua morte al punto da togliere perfino i suoi versi dalle antologie scolastiche dove prima obbligatoriamente figuravano insieme a quelli del Pascoli. Cercherò infine di mostrare perché, a mio parere, AN , poetessa agli inizi a cavallo fra Otto e Novecento, ma poi passata attraverso due guerre mondiali, poetessa che appare oggi datata in modo apparentemente irrecuperabile, si proietti invece, anche per via della sua straordinaria evoluzione stilistica nell’arco lunghissimo di 50 anni di attività, dalla prima raccolta del 1892 all’ultima uscita postuma che arriva al 1943,  si proietti, dicevo, verso la seconda metà del secolo e forse anche oltre, e abbia qualcosa di importante da dirci ancora oggi.

Quando  una giovane AN si affaccia alla scena letteraria, qual è la sua epoca? E’ l’epoca del passaggio da una società contadina a una società industriale, di un nuovo ceto operaio sfruttato e miserabile, un’epoca di lotte sociali, di un socialismo  che poi sfocerà nel fascismo. Un’epoca essenzialmente di trasformazione, di transizione, che AN , nata poverissima da una madre che lavora in fabbrica, vivrà in prima persona e di cui sarà appassionata interprete, lei prima poetessa non di estrazione borghese ma proletaria, non allevata nei salotti letterari e nelle aule universitarie ma provvista solo di un diploma di maestra, un iter che inconsapevolmente può ricordare quello di tanti scrittori americani, come lei giunti alla fama dal basso della scala sociale e dopo aver esercitato umili mestieri. AN , donna e proletaria, è una figura del tutto nuova nel nostro panorama letterario e culturale essenzialmente accademico. Una figura che potremmo  considerare romantica  nel suo socialismo umanitario appassionato. La sua poesia è nei primi anni la voce del Quarto Stato, quella dei personaggi  che riempiono la tela di Pellizza da Volpedo , un dipinto  realizzato nel 1901, trent’anni dopo la nascita di AN, e in cui figura in prima fila una giovane donna in stracci con un bambino in braccio. Nel 1901 AN  ha già pubblicato due raccolte di versi, Fatalità e Tempeste, ed  è già una poetessa famosa. Per l’impegno sociale dei suoi scritti la chiamano la Vergine rossa.

AN è un outsider in tutti i sensi.

Chi sono i suoi contemporanei? Guardiamo le date. AN nasce nel 1870 ed esordisce giovanissima nel 1892. E’ allora viva e operante la “grande triade”: Carducci, che morirà nel 1907, Pascoli, che morirà nel 1912.  Nel 1882, dieci anni prima di Fatalità, Canto novo ha rivelato il poeta per eccellenza, D’Annunzio, praticamente suo coetaneo: aveva solo 7 anni quando è nata Ada. Alle sue spalle , ancora attiva, c’è una generazione  nata nella prima metà dell’Ottocento: quella di Verga, di Fogazzaro, di Carducci appunto. Nel 1895, tre anni dopo Fatalità,  Fogazzaro ha pubblicato Piccolo mondo antico. Nell’81, quando Ada è ancora bambina, Verga pubblica I Malavoglia. Nell’87 sono uscite le Rime nuove di Carducci. Suoi coetanei sono invece, oltre a D’Annunzio, Marinetti, nato sei anni dopo di lei ad Alessandria d’Egitto, Pirandello che quando Ada nasce è un bambinetto di 3 anni, Croce, che in quel momento ne ha 4. Il più vecchio  “coetaneo” è Svevo, nato nel 1861, ha nove anni più di Ada. Nel 1898 Svevo, tre anni dopo Tempeste di AN, pubblica Senilità. L’Estetica di Croce uscirà nel 1902. Ma già si affaccia  una generazione nata negli ultimi anni del secolo, una generazione che avrà circa vent’anni all’epoca della Grande Guerra e nella quale spiccano i nomi di Saba, Ungaretti, Rebora e Montale. Nomi che  agiranno ormai nel secolo nuovo, il Novecento. Nel ’12 Rebora pubblicherà i suoi Frammenti lirici. Ungaretti pubblica Il porto sepolto nel 1916. Nel ‘21 esce il Canzoniere di Saba. Nel ‘25 usciranno Gli ossi di seppia. Più in là, nella prima metà del Novecento, fra le due guerre,  ma sempre durante la vita di Ada  e la sua attività  di scrittrice, appariranno sulla scena Pavese  (Lavorare stanca uscirà nel ’36, circa dieci anni dopo I canti dell’isola di AN) e Luzi, che comincia a pubblicare nel 30, entrambi nati nel secolo nuovo. La prima vera affermazione di un quarantenne Quasimodo con E’ subito sera avrà luogo solo nel 1942 , a completare la nuova “triade”: Ungaretti Montale Quasimodo. Questo è il contesto letterario  in cui situare AN.

In mezzo a tutti questi importantissimi nomi, Ada compie un suo autonomo cammino.

Certo si possono rintracciare nel primo tempo della sua poesia, a cui fa da spartiacque la prima guerra mondiale , influenze soprattutto di D’Annunzio e anche del Pascoli, cui lei però non volle mai inviare i suoi versi.  Diciamo che si tratta soprattutto di “un’aria del tempo” e allora AN scrive quartine di endecasillabi in rima, perfettamente regolari, stigmatizzate da alcuni critici come ridondanti e retoriche. Ma subito dopo la guerra, nel 1919,  c’è la grande svolta: Il libro di Mara, con un verso sciolto e allungato, narrativo, vicino alla prosa, e ancora più ne I canti dell’Isola, del 1924:  un verso che sembra anticipare metricamente il verso lungo e narrativo del Pavese di Lavorare stanca. Certo Ada  conosce e legge  quanto viene pubblicato, vive pienamente la vita letteraria del suo tempo, tuttavia si può dire che passi indenne  fra i vari movimenti e scuole che la costellano: dal decadentismo al futurismo, dai crepuscolari ai vociani e più tardi ai primi ermetici, termine coniato solo nel ’36 dal Flora. Vi passa senza avvicinarsi a nessuno di questi movimenti o scuole, ma conservando una sua totale autonomia. Come ebbe infatti a dire lei stessa: un poeta vero non deve  appartenere a “chiese e chiesuole”.

La poesia di Ada Negri, quindi, stilisticamente forse ha attinto al verso libero, ricco e fluviale di Walt Whitman che, nato 50 anni prima di lei, aveva rivoluzionato la poesia americana, mentre non si avverte nemmeno troppo l’influenza di D’Annunzio, l’“immaginifico”: la  poesia di AN è immediata e si direbbe spontanea, in qualche modo semplice, priva di orpelli letterari.

Ci sono certo qua e là cadenze pascoliane  (e dove non ci sono, ancora oggi, nella poesia italiana?) anche perché, come il Pascoli, anche lei è poetessa delle cose quotidiane, della natura, della campagna, di un mondo agricolo che per lei si identifica con il lodigiano. Ma AN non è simbolista, come Pascoli. Ungaretti che pubblicherà tra il ‘20 e il ‘30 alcuni dei suoi libri più famosi,  non sembra averla influenzata, e le loro strade non sembrano essersi mai incrociate. E, benché abbia conosciuto Marinetti, Ada Negri sembra legata   più al mondo che ha alle spalle che a quello che comincia ad aprirsi davanti a lei, quello delle avanguardie e poi dell’ermetismo.

La poesia di AN segue da vicino le vicende della sua vita, e ne sgorga: se la poesia della giovinezza si ispira all’ambiente in cui vive e  sviluppa temi sociali , prendendo le parti dei diseredati,  successivamente  si sviluppa una tempestosa  ( il titolo della seconda raccolta sarà appunto Tempeste) poesia d’amore,  poi in quella della maturità troveranno spazio gli affetti familiari, il tema della solitudine e della natura che si identifica soprattutto con quella panica di Capri, ma anche con la malinconica campagna lombarda, e infine, nell’ultima parte della vita,  AN approda a una poesia di intensa ispirazione religiosa. Lo stile si fa negli anni sempre più incisivo e  più spoglio acquistando una modernità  per certi aspetti quasi attuale e abbandonando per lo più la rima per un uso ripetuto dell’enjambement che dà la sensazione di un cammino difficoltoso, di un affanno. La sua diventa una meditazione sofferta sul senso della vita e del dolore   che ci coinvolge ancora oggi e a cui lei dà una risposta: L’accettazione, in una bellissima poesia con questo titolo.

AN rimase così sempre  una voce isolata , una outsider, non solo per la sua preparazione culturale, che era ufficialmente quella di una maestra elementare, e per la sua origine proletaria, ma anche per non aver mai appartenuto a nessuna parrocchia letteraria.  E mal gliene incolse, potremmo dire col senno di poi.

Veniamo infatti alle ragioni per cui, dopo la sua morte fisica , AN è stata diciamo “punita” con una morte letteraria. Correntemente si ritiene che questo sia dipeso dal suo essere stata fascista e in particolare, a sostegno di questa opinione, si fa riferimento al Premio Mussolini che ella ricevette nel 1931 e al suo essere stata accolta, nel 1940, prima ed unica donna,  nell’Accademia d’Italia, fondata da Mussolini nel 1929,  che verrà poi chiusa  nel 1944 con il crollo del fascismo. Ma è singolare come a questi due eventi venga dato grande rilievo nelle biografie di Ada Negri mentre ne viene dato molto poco, o non ne vien dato affatto,  nelle biografie di altri personaggi. Molti altri nomi famosi di quegli anni ebbero infatti il Premio Mussolini, per esempio Emilio Cecchi e  Ildebrando Pizzetti , Ardengo Soffici e addirittura Giò Ponti. Mentre fra  coloro che furono accolti nell’Accademia troviamo i nomi, tra gli altri molti,  di Bontempelli, lo stesso Cecchi,  Marinetti, Panzini, Ojetti,  Pascarella, l’architetto Piacentini,  il compositore Perosi, Repaci, il traduttore dei classici greci Ettore Romagnoli, Renato Simoni, naturalmente Gabriele D’Annunzio, lo scultore Adolfo Wildt. Insomma praticamente tutta l’intellighenzia dell’epoca. Ma perché se ne fa carico solo a AN? Perché lei sola doveva esserne penalizzata? Tra l’altro una curiosità abbastanza sorprendente: se si va oggi  su internet a leggere l’elenco degli ammessi all’Accademia, si vede che , chissà perché, esso si ferma al giugno del 1939, un anno prima  di quando vi fu ammessa Ada , la quale quindi non vi compare affatto! Ironia della sorte , oppure, espunta, censurata anche da lì?

Sono quindi assolutamente d’accordo con Davide Rondoni il quale, in un saggio che accompagna l’antologia Mia giovinezza uscita nel 1995 nella BUR, scrive: “Non bastano motivi di natura ideologica e politica per giustificare  la strana vicenda di AN  passata dalla popolarità alla censura”.  

Vorrei anch’io dare il mio contributo a vanificare  una simile versione , che mi sembra una versione di comodo. Ritengo infatti  che le ragioni di questa censura, di questa messa al bando in realtà siano ben altre.

Prima di tutto proprio il suo non far parte di nessuna parrocchia  ideologica e letteraria. Ada Negri non apparteneva  né alla cultura marxista, perché il suo era stato semplicemente un socialismo  umanitario, se vogliamo di impronta romantica, né all’area specificamente cattolica, perché l’avvicinarsi della sua poesia a un’ispirazione religiosa negli ultimi anni la denotava piuttosto con un’accezione di religiosità laica, se mi si passa l’ossimoro, anche qui molto autonoma. E per queste stesse ragioni, nella seconda metà del Novecento, dopo la tremenda cesura della seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, AN doveva dispiacere alla cultura  più conservatrice, per il suo socialismo libertario e per essere  stata la Vergine rossa, ma ancor più alla prevalente cultura di sinistra, dichiaratamente materialista, la quale non poteva che osteggiare una poesia  che si rifaceva al trascendente. Un simile destino è toccato in seguito alla poetessa cattolica ligure Elena Bono, nata nel 1921, morta nel 2014, pubblicata con successo da Garzanti negli ‘anni 50 , ma successivamente colpita da ostracismo fino alla sua morte e tutto sommato anche oltre.

Insomma, nessuno voleva farsi carico dell’eredità poco gratificante e per nulla propagandistica di AN, perché nessuno poteva reclamarla come di sua appartenenza e quindi portare avanti il su ricordo. E Montale sapeva così bene che un poeta che non lasci eredi che si incarichino di ricordarlo e di celebrarlo è votato alla dimenticanza , che si premurò di organizzare dietro di sé alcuni mannelli di poesie inedite da far pubblicare a scaglioni con prevedibile suspense

Ma c’è qualcosa di più.  Certo  quello che è successo nella poesia italiana  nel cosiddetto secondo Novecento non poteva favorire la frequentazione della poesia di AN e la sua memoria. Il nuovo indirizzo della poesia a partire dagli anni ‘50, con lo strutturalismo e  lo sperimentalismo  della neoavanguardia, non  poteva celebrare il ricordo di una poetessa che ne I canti dell’isola aveva cantato liricamente e appassionatamente la bellezza in  una sorta di identificazione panica con la natura, ed era stata in primo luogo una poetessa dei sentimenti.  

Ma nemmeno questa, chiamiamola ideologica o  di ideologia critica – come la vogliamo chiamare? – può essere la sola ragione. Nella dimenticanza che ha colpito AN c’è qualcosa di più della dimenticanza che ha colpito per similari ragioni tanti altri poeti, per esempio il musicalissimo Alfonso Gatto, o anche Giovanna Bemporad, che molto se ne doleva, per non dire più in generale che la dimenticanza colpisce  quasi tutti i nostri poeti defunti, se si esclude una piccola manciata di nomi, che sono sempre quelli.  Mi è parso di intravvedere tuttavia  nel caso di AN un astio particolare, quasi  una volontà punitiva nella sua esclusione, al di là di quel suo pretestuoso fascismo in un‘epoca in cui tutti erano, con poche eccezione, fascisti.

Questa ragione è una ragione oscura e vergognosa, come una malattia, come quella macchia sul volto che deturpava la bellezza di una delle protagoniste indimenticabili di AN nel suo libro di racconti Le solitarie. Questa ragione è stata il grande successo di An in vita. AN ha avuto in vita un successo straordinario. Ma questo successo non le è stato decretato dai critici letterari, che per lo più l’hanno osteggiata, a cominciare dal suo coetaneo Croce. Per non parlare di Pirandello, che aveva riversato il suo disprezzo anche su Grazia Deledda, benché o forse proprio perché sua collega di Nobel. Ma anche il Russo la criticava, lo stesso Flora  aveva della grosse riserve. E Renato Serra poi! Critici uomini, si direbbe pesantemente misogeni. E di che cosa accusavano AN? Di quello di cui gli uomini hanno sempre accusato le donne: di essere una maestrina, di scrivere cosucce sentimentali. A dispetto delle  sue vaste e comprovate conoscenze e frequentazioni letterarie, anche di letterature straniere, in realtà non dovevano considerarla una vera intellettuale.

Per queste stesse ragioni, An piaceva ai suoi infiniti lettori, sottolineando così l’abisso che da sempre separa  per lo più la nostra cultura dalla sensibilità della gente. AN è stata un po’l’Alda Merini della sua epoca. Non faccio paragoni letterari, parlo del suo successo presso i lettori. Quello che AN scriveva piaceva alla gente. La gente l’amava. E lei amava gente, la gente sconosciuta, ancor più se era povera, in difficoltà, ancora più se questa persona povera e in difficoltà era una donna. AN aveva cominciato dando voce al Quarto Stato che era  di per sé incapace  di dare espressione letteraria e artistica al suo dolore, di sublimarlo e insieme alleviarlo nell’arte. AN l’ha fatto al suo posto, si è incaricata di dargli una voce. Ma poi in seguito AN ha dato voce ai sentimenti del cuore, all’amore per la natura, al bisogno di una fede, e a quello di trovare un senso superiore e pacificante alla vita. Tutto questo risuonava nel cuore della gente. Ma lei  non scriveva a banalità, sapeva scrivere. Era stata apprezzata, altro che da Mussolini,  dallo stesso Gramsci.

In questo caso il destino di AN si apparenta almeno parzialmente a quello di Esa Morante. Per lo meno la Elsa Morante de La storia.Ho ascoltato recentemente una interessante trasmissione su Radio tre in cui un critico di cui purtroppo non ho colto il nome osservava come  dopo La storia la Morante sia stata avversata da critici e letterati che non potevano perdonarle di avere avuto un vastissimo successo di pubblico con un’opera di  alto valore letterario. Un’accoppiata insopportabile per chi questo successo non ce l’ha e non può nemmeno  affermare di trovarsi davanti  a uno scrittore di serie B. E allora cala il silenzio,  ha inizio l’esclusione.  Morta AN, spariti i suoi libri e il suo pubblico, ecco arrivato il momento giusto per farle pagare quel successo. Non esiste quasi nessuna figura di poeta nell’Italia contemporanea, a differenza di altri Paesi, per esempio l’America Latina, che  sia riuscito a interpretare l’anima del popolo , o almeno  di una metà del cielo, come si dice , quella femminile, come era riuscita a fare AN. Solo appunto forse la Merini, ma  solo per quanto riguarda l’animo femminile e l’amore, senza una dimensione sociale, se non magari, seppure sottesa,  quella della diversità e del disagio psichico così presente  ai nostri giorni.

Una voce fuori dal coro, una voce di successo:  sono già due buone ragioni, coperte dal velo bugiardo di una condanna per fascismo: come se una come AN avesse potuto approvare la guerra e le leggi razziali!Lei che lavorava come volontaria negli ospedali e  lottava contro ogni ingiustizia, a difesa dei deboli!  Vittima solo di una retorica di sinistra.  

Ma anche queste due ragioni non mi paiono sufficienti alla messa al bando postuma di AN.

Per andare oltre, per approfondire il problema e magari trovargli una soluzione, dobbiamo analizzare ulteriormente la poesia di AN.

Di che  cosa parla la sua poesia? La sua poesia si regge su tre pilastri: il sociale, il femminile e il sacro. Non abbiamo ancora analizzato il femminile.

Diciamo prima di tutto che il sociale e il femminile, in AN, coincidono.  Coincidono prima di tutto idealmente nella figura di sua madre, vedova di un marito alcolizzato, dolente operaia in un lanificio. Ada Negri è stata una femminista negli anni in cui è iniziato il femminismo, il cui inizio viene ufficialmente situato nel 1897 in Inghilterra con la fondazione di una National Union, ossia cinque anni dopo che AN aveva pubblicato il suo libro di esordio Fatalità. Fu proprio il fascismo, da cui forse, ingenuamente, AN aveva sperato una maggiore dignità riconosciuta alle donne, a bloccare i tentativi delle femministe italiane, per lo più borghesi cattoliche, di ottenere il riconoscimento del diritto di voto che verrà approvato solo il 1° febbraio 1945: quasi una beffa: AN era morta tra il 10 e l’11 gennaio, 20 giorni prima,  e non lo seppe mai.

Abbiamo parlato finora di poeti, scrittori e letterati maschi, ma AN è stata una delle esponenti di spicco  di un manipolo di donne scrittrici e poetesse straordinarie e coraggiose che vorrei chiamare le Grandi Combattenti e che include i nomi di  Sibilla Aleramo, nata nel 1876,  Amalia Guglielminetti, 1881, e naturalmente Grazia Deledda, nata nel 1971, un solo anno di differenza, precedute da Matilde Serao,1856, e Annie Vivanti, nata nel 1866. E’ bene quindi situare AN  anche in un contesto non già di “letteratura al femminile” ma di donne scrittici a cavallo fra Otto e Novecento, nate sorprendentemente negli stessi anni e che spesso neppure si conobbero e si frequentarono fra loro, percorrendo ciascuna la propria strada, ma tutte  in una stessa direzione: quella di una libera espressione del loro sentire e della loro vocazione artistica,  nonostante la difficoltà di trovare uno spazio in un mondo tutto al maschile che non risparmiò loro situazioni anche pesanti di esclusione. Queste donne continuano a essere penalizzate anche oggi, tuttavia si possono considerare nonostante tutto delle vincitrici,  benché questo sia costato loro certamente molto dolore.  Benché tutte autodidatte, altro tratto che le accomuna, interessate alle tematiche umanitarie  e sociali della loro epoca, seppero affermare un’immagine  alta e forte,  nuova, di un femminile che si liberava dalle catene di una secolare sottomissione per dire la sua verità e raggiungere i traguardi più alti.  Tutte con una vita amorosa libera e spesso travagliata, spesso sole e separate come AN, ma aperte alla passione, quasi tutte che   riuscivano, attraverso le collaborazioni ai giornali, a mantenersi da sole in un’epoca in cui le donne erano economicamente soggette al marito, mai tuttavia rinunciando alla loro  intensa sensibilità femminile. Un capitolo a sé stante della letteratura italiana che andrebbe ancora approfondito.

Sono donne che aprirono a fatica un varco, uno spiraglio di luce, fecero intendere alle loro sorelle prigioniere di vite inutili e sacrificate, chiuse nelle case  fra panni e bambini, in realtà schiavizzate da un mondo tutto al maschile, fecero loro intendere che era forse possibile avere una vita libera e indipendente, mantenersi con il proprio lavoro, vivere la propria sessualità anche a prezzo di  pagare tutto questo,come toccò a AN, con  la solitudine. AN fu libera, indipendente e mai sorretta da un uomo nella sua carriera letteraria, mantenendosi oltre che con i suoi libri con il giornalismo.

Ma nemmeno questo è tutto, Nella sua poesia AN andò sempre più esprimendo il Femminile, soprattutto negli anni centrali della maturità, soprattutto ne Il libro di  Mara, che narra di una passione quasi folle,  disperata, ma vissuta con empito fino in fondo, 

Il Femminile è al centro della sua poesia . La sua è una scrittura torrenziale  che esprime il nucleo più profondo e nascosto del Femminile , quello che unisce l’erotismo alla maternità. Lo esprime senza ricorrere a metafore ma in maniera diretta e irruente, esprime non l’inconscio del Femminile ma la sua coscienza, senza miti, e non con sentimentalismo ma con una forza che  una volta si sarebbe detta maschile, addirittura  con asprezza, senza veli e anche senza falsi pudori. AN  esprime la violenza del Femminile , quella che da sempre fa paura all’uomo, e anche una tragicità del Femminile quando è conculcato, come nel mito antico di Medea, almeno come l’ha visto Christa Wolf. Esprime l’erotismo come esigenza della donna, e anche questo spaventa l’uomo.

Diciamo che chi ha messo al bando AN , dopotutto, è stato  un tribunale maschile, perché il potere anche letterario è ancora oggi maschile e in questo vorrei paragonare ancora una volta il silenzio che ha colpito AN a quello che ha colpito un’altra grandissima poetessa del Novecento, di cui mi sono a lungo occupata, Fernanda Romagnoli, la cui poesia ha espresso a sua volta un’aspirazione all’assoluto, riflettendo la condizione  di sofferenza di una donna cui una società patriarcale strappava la libertà e la gioia della vita. Perché anche per Fernanda come per AN la vera vocazione della donna, come di ogni essere umano, era la vocazione alla gioia, e questa gioia non dipende dall’uomo, ma  risiede nel riconoscimento  di sé, nella libertà di esprimersi nel mondo, non come un tredicesimo invitato ma come un invitato a tutti gli effetti; consiste nella possibilità del suo essere di fondersi con l’universo come espressa nei Canti dell’isola.  E anche questa possibile gioiosa autonomia forse non piace al mondo maschile, legato al cordone ombelicale della madre e al tempo stesso avvezzo a considerare la donna una propria appendice dai tempi della costola di Adamo.

Io credo in definitiva che  la cancellazione di AN avvenuta dopo la sua morte sia dovuta alla somma di tutte le ragioni che ho esposto, ma che il suo sia stato soprattutto un caso che vorrei definire di Femminicidio Culturale. Esiste purtroppo un femminicidio fisico  e  un più perverso femminicidio psicologico, ma esiste un ancora più perverso femminicidio culturale che pesa ancora oggi  sulla poesia femminile del passato anche recente e forse un po’ ancora su quella contemporanea.

In conclusione, detto tutto questo: esiste un’attualità di AN oggi? un motivo per leggerla e ricordarla?

Io credo di sì.     

Dirò adesso qualcosa che forse dispiacerà o irriterà alcuni:  la poesia, che si vuole un valore eterno e immortale, almeno  fino a Mallarmé e al suo colpo di dadi, almeno fino a quando dallo strutturalismo in poi è stato messo in  crisi il valore della parola e la poesia è diventata spesso solo un gioco letterario, la poesia, più ancora del romanzo, è in realtà soggetta  alle mode letterarie, e basta poco per escluderla e dimenticarla.Tuttavia quando è vera poesia, al di là delle mode, tolta la vernice del contingente e del relativo, rimane alla fine un nucleo depurato e quello sì può aspirare a una sorta di immortalità, o almeno a una permanenza, a un valore  che va oltre l’immediato e il contingente.  Penso che questo sia anche il caso di AN. 

Lei si proietta oltre il suo tempo  non solo perché raggiunse negli ultimi anni uno stile depurato ed essenziale, ma anche per lo scavo esistenziale della sua poesia, soprattutto quella degli anni più tardi. Ma anche perché , benché un suo apporto sia stato implicitamente negato da quella poesia che si definiva “della realtà” nel dopoguerra , con l’antologia di impronta marxista  di  Majorino proprio con il titolo Poesia e realtà ’45 ’75, uscita dall’editore Savelli nella collana Il pane e le rose, riprendendo  il nome dato a un famoso sciopero  – bread and roses – che ebbe luogo in Inghilterra nel 1912 proprio nell’industria tessile, la poesia di AN ci riporta oggi alla necessità di una nuova poesia in contatto con la realtà. Una poesia che dia voce a una realtà  non virtuale, che si allontani dall’intellettualismo e dai suoi giochi. E anche  a una poesia dei sentimenti, anch’essa  andata  quasi del tutto perduta.

Ma  è bene ritornare ad AN  anche perché lei con una energia tremenda ha parlato del Femminile Eroico che è un archetipo che ai giorni nostri pare anch’esso in via di estinzione. E’questa un’eredità importante che AN ha lasciato alle donne di oggi, alle scrittrici e alle poetesse di oggi e che ce la fa sentire vicina.

Donatella Bisutti

Questo libro è una felice esperienza editoriale sviluppata del Liceo Statale Gaetana Agnesi, un tempo Istituto Magistrale dove Ada Negri insegnò.

Madre Operaia  

Nel lanificio dove aspro clamore
Cupamente la vôlta ampia percote,
E fra stridenti rôte
Di mille donne sfruttasi il vigore,

Già da tre lustri ella affatica.—Lesta
Corre a la spola la sua man nervosa,
Nè l’alta e fragorosa
Voce la scote de la gran tempesta

Che le scoppia dattorno.—Ell’è sì stanca
Qualche volta; oh, sì stanca e affievolita!…
Ma la fronte patita
Spiana e rialza, con fermezza franca;

E par che dica: Avanti ancora!…—Oh, guai,
Oh, guai se inferma ella cadesse un giorno,
E al suo posto ritorno
Far non potesse, o sventurata, mai!…—

Non lo deve; nol può.—Suo figlio, il solo,
L’immenso orgoglio de la sua miseria,
Cui ne la vasta e seria
Fronte del genio essa divina il volo,

Suo figlio studia.—Ed essa all’opificio
A stilla a stilla lascierà la vita,
E affranta, rifinita,
Offrirà di sè stessa il sacrificio;

E la tremante e gelida vecchiaia
Offrirà, come un dì la giovinezza,
E salute, e dolcezza
Di riposo offrirà, santa operaia;

Mio il figlio studierà.—Temuto e grande
Lo vedrà l’avvenire; ed a la bruna
Sua testa la fortuna
D’oro e di lauro tesserà ghirlande!…
*

…. Ne la stamberga ove non giunge il sole
Studia, figlio di popolo, che porti
Scritte ne gli occhi assorti
De l’ingegno le mistiche parole,

E nei muscoli fieri e nella sana
Verde energia de le tue fibre serbi
Gli ardimenti superbi
De la indomita razza popolana.

Per aprirti la via morrà tua madre;
All’intrepido suo corpo caduto
Getta un bacio e un saluto,
E corri incontro a le nemiche squadre,

E pugna colla voce e colla penna,
D’alti orizzonti il folgorar sublime,
Nove ed eccelse cime
Addita al vecchio secol che tentenna:

E incorrotto tu sia, saldo ed onesto…
Nel vigile clamor d’un lanificio
Tua madre il sacrificio
De la sua vita consumò per questo.

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Giampiero Neri, l’imperfetto assoluto e il bosone di Higgs

Il saggio che pubblichiamo qui è la relazione che è stata fatta alla Biblioteca Sormani di Milano in occasione della presentazione del libro Via provinciale di Giampiero Neri avvenuta l’8 febbraio 2017. E’ stata pubblicata nell’ultimo numero della prestigiosa rivista Italian Poetry, diretta dal professor Paolo Valesio della Columbia University. Si tratta di una interpretazione inedita della poesia dell’Autore.

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