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Poeti in ombra, ovvero I poeti e la fama (pubblicato su I Limoni)

Di seguito il mio saggio “Poeti in ombra, ovvero I poeti e la fama” pubblicato su I Limoni, Annuario della Poesia in Italia nel 2023, a cura di
Francesco De Nicola

 

 

Poeti in ombra
(ovvero I poeti e la Fama)
di Donatella Bisutti
Ogni poeta ha un suo rapporto personale, a volte bizzarro, con
la Fama. Ma questo rapporto, prima di essere personale, può
essere condizionato, favorito, od ostacolato, prima di tutto da
ragioni familiari, ma anche sociali, storiche, politiche. Come
succede per il denaro, ci sono, anche per quanto riguarda la
Fama, i ricchi e i diseredati. C’è chi la riceve in qualche modo,
come la ricchezza, per via ereditaria, e il suo è quasi un de-
stino: infante, gioca a cavalluccio sulle ginocchia di qualche
nome iconico della letteratura amico di casa, di qualche fa-
moso editore che già lo prende a benvolere e domani lo pub-
blicherà senza che lui debba fare il minimo sforzo, di qualche
proprietario di importanti testate giornalistiche, oppure nasce
in una famiglia di scrittori famosi: la Fama aleggia intorno alla
sua culla e già sembra spalancare le porte al neonato. Ma biso-
gna pur dire che a volte – rare volte – questo può essere anche
un handicap: c’è infatti anche chi proprio per questo dubita
di essere all’altezza e del casato letterario gli capita in sorte
solo il peso e l’inibizione, soffre del confronto, si rattrappisce,
si fa piccolo ed evita di intraprendere una carriera di poeta.
Conviene anche notare tuttavia che, curiosamente – ma ci sarà
pure una ragione – la poesia è molto meno ereditaria, chissà
perché, della musica, o della pittura, e perfino della narrativa.
Filtra difficilmente attraverso il DNA.
La Fama è comunque, per definizione, una nozione non
privata, ma pubblica. Ogni epoca ha, per la Fama, e anche
per la Fama dei poeti, un suo criterio, un suo metro, una sua
misura. Perciò può anche succedere, al contrario, che la Fama
si posi sul capo di chi è nato povero, diseredato, diverso, di-
sgraziato, escluso, e proprio per questo diventa in certo modo,
socialmente, un vessillo, una bandiera di tempi nuovi, diversi.
Prima di essere una questione personale, quindi, la Fama,
ancora più che un fatto sociale, è una questione che ha a che
fare con la Storia. E la Storia significa il Tempo. Ci sono poeti
che nascono fuori tempo. In ritardo o in anticipo. Più che al-
tro in ritardo. Anche se mi viene in mente almeno un caso di
poeta “in anticipo”: Emilio Villa, che anticipò la neoavanguar-
dia, ma nessuno volle mai riconoscerglielo, e fu anzi messo
al bando, ghettizzato, ignorato. Vero è che sembra avesse un
caratteraccio. O il caratteraccio gli era venuto di conseguen-
za? Così ci volle che gli venisse finalmente dato un premio,
quand’era ancora vivo ma malato – e non poté ritirarlo – da
una giuria da me presieduta e significativamente non costitu-
ita da poeti, ma da artisti, scultori e pittori, uno psicologo di
fama come Mauro Mancia e un’attrice come Ottavia Piccolo.
La Moda è la sorella frivola, incostante, apparentemente
superficiale della Storia. Perciò la Fama e la Moda, anche per
quanto riguarda la poesia, vanno a braccetto. Perché non esi-
stono parametri sicuri, oggettivi, con cui pesare una poesia
(anche se Pound aveva detto che il poeta, “come il porco”,
si può pesare, ma “dopo morto”). Così come non esiste un
criterio oggettivo che ci dica, fuor da ogni dubbio, se è giusto
che una gonna sia lunga, o se deve essere corta, un paio di
pantaloni a zampa di elefante o a tubo, una giacca attillata
oppure ampia: nella moda si decide al momento quello che
va bene, oppure no. E appena si è deciso, ecco che si cambia
idea. Anche nella poesia, in fondo, succede lo stesso. Anche se
affermarlo potrà sembrare blasfemo. Chi si presenta a un rice-
vimento con una gonna lunga quando usano ormai le gonne
corte, sarà considerato una persona demodée e inelegante. Cosi
un esempio di poetessa fuori moda, perché fuori tempo, cioè
in ritardo, anche se a suo modo elegantissima, è stato quello
di Giovanna Bemporad. Giovanna Bemporad ha scritto del-
le poesie bellissime, che sarebbero piaciute a Baudelaire e ai
poètes maudits, poesie dense di simboli e trasudanti una sen-
sualità ambigua, perfette nella forma, troppo perfette in anni
in cui la neoavanguardia – quella anticipata da Emilio Villa,
che nel frattempo era arrivata – scardinava il linguaggio e se
ne infischiava dello stile, gettava fiaccole incendiarie sulla per-
fezione, sghignazzava sui simboli e buttava nella spazzatura gli
endecasillabi, i sonetti, le assonanze. La Bemporad è diventata
famosa come traduttrice, in moderni splendidi endecasillabi,
dell’Odissea, ma le è stata pervicacemente negata la Fama in
quanto poetessa in prima persona, uno strazio per lei insop-
portabile, che si è portato dentro – ma lo esternava anche mol-
to – fino alla tomba.
Ma come, si dirà, si può abbassare la Poesia, arte del su-
blime e dell’eterno, al livello di qualcosa di frivolo come la
Moda? Paragonare i sonetti ai merletti? Un’ode a un abito da
sera? Eppure, senza nulla togliere alla poesia, nel cui valore
anche metafisico, anche oracolare, sciamanico, io credo pro-
fondamente, nel mio saggio La poesia salva la vita mi sono
sforzata di mostrare come essa si occupi anche di bidoni della
spazzatura e di calzini bucati, come possa andar per via anche
più povera e nuda della filosofia, come sia qualcosa con cui,
facendola scendere da pretenziosi piedestalli, possiamo avere a
che fare nel quotidiano, in cucina, nel sottoscala, in cantina,
tutti i giorni. Come possa essere anche proletaria e diseredata.
E come tale la dobbiamo anche saper trattare. Miracolo della
poesia, uno dei tanti: far brillare la spazzatura come un dia-
mante. Il che, tra parentesi, è riuscito benissimo a un poeta
come il genovese Nicola Ghiglione.
Basta riflettere un attimo, sfogliare una storia o un’antolo-
gia letteraria per rendersi conto che a ogni pie’ sospinto la po-
esia, femmina e come tale incostante, ha cambiato look e im-
provvisamente qualcosa che fino ad allora era stato “di moda”
improvvisamente ha cessato di esserlo. Perciò: bisognava essere
simbolisti o avanguardisti? manieristi o surrealisti? ermetici o
crepuscolari? stilnovisti o metafisici? poetare in rima o in verso
libero? scrivere in prosa d’arte o in versi?
Ma come si può allora coniugare tutto questo con un pre-
teso valore “assoluto” della poesia? Allora la poesia cos’è? Ap-
partiene alla Storia o all’Eternità? Secondo me la si può pa-
ragonare al mare, che in superficie ha a volte ondine appena
increspate, altre volte cavalloni, onde lunghe, vortici e correnti
ma, sotto quella sua superficie di continuo cangiante, nella
profondità è immobile e sempre uguale a se stesso e ospita con
imparzialità mostri e meraviglie. Quindi, per esempio, anche
la poesia della Bemporad potrebbe riaffiorare al termine di
un’ondata impietosa che l’ha sommersa.
Così questo già si può dire, sul tema dei “poeti in ombra”:
che l’ombra per quanto riguarda i poeti è spesso intermittente.
E che quasi tutti i poeti – anche i più famosi – attraversano
periodi in cui sono “in ombra”, la loro fama ha delle eclissi
in cui la dimenticanza vela le loro pagine come l’ombra della
Terra ricopre di un cono d’ombra la faccia della luna. E queste
eclissi possono durare anche un secolo o più.
Non ne è stato esente nemmeno Dante, che non di rado
fu oggetto di scarsa considerazione da parte di critici italia-
ni e stranieri. Un letterato influente come il cardinale Pietro
Bembo, che, nel Cinquecento, si propose di codificare la lin-
gua italiana, escluse Dante dal novero dei modelli letterari,
privilegiando invece il Petrarca. Nemmeno la Controriforma
fu favorevole al sommo poeta, di cui venne addirittura mes-
so all’indice, per ragioni politiche, il trattato De Monarchia.
Nel Seicento e nel Settecento, con l’eccezione di Giambattista
Vico (il suo Giudizio sopra Dante è del 1729) Dante fu ad-
dirittura ignorato, se non spregiato, e solo il Romanticismo
riaccese l’interesse nei suoi confronti. Anche in tal caso questo
dipese più dalle circostanze e dalle ragioni della Storia che dal-
la critica letteraria, poiché il suo messaggio politico si sposò
agli ideali del Risorgimento attraverso Foscolo e Mazzini. Ma
bisogna aspettare l’Ottocento perché il De Sanctis dia al poe-
ta una consacrazione che ormai si può considerare definitiva.
Oggi Dante e la sua Commedia sono saliti agli onori anche
dei fumetti e dei videogiochi, se questo sia un bene non si sa.
La Bemporad quindi può ben aspettare, il tempo può essere
infine dalla sua parte.
In Italia però il cono d’ombra si stende anche troppo fa-
cilmente sui poeti morti. Se si tratta di poeti antichi, illustri,
in qualche modo consacrati, quest’ombra non si vede, sembra
non esserci: ma, a guardar bene, tranne qualche rara eccezio-
ne, forse solo il Petrarca, di fatto nessuno li legge, se non per
ragioni di studio, e quindi non solo l’ombra ma addirittura il
buio li circonda. Dell’Ottocento c’è una sola grande eccezio-
ne, grazie anche alla scuola, ma forse anche al fatto che siamo
tutti sempre più inclini al pessimismo, se non alla dispera-
zione: il Leopardi. Più vicini a noi, sempre molto grazie alla
scuola, il Pascoli, ondivago il d’Annunzio, e poi naturalmente
Ungaretti, Quasimodo, Montale la triade perfetta del Nove-
cento, tre poeti diventati inseparabili nelle citazioni anche se
nella vita non si potevano vedere.
Però che cosa succede quando ci avviciniamo di più ai tem-
pi nostri? Quando non ci sono eredi, muse ispiratrici, disce-
poli fedeli a sostenere la memoria? La morte del poeta diventa
per lo più un nero abisso in cui egli sprofonda insieme ai suoi
testi. Di Alfonso Gatto, grande poeta, fino a qualche anno fa
si poteva trovare pubblicato solo un suo libro di poesiole per
bambini. Poi finalmente gli è stato dedicato dalla Mondadori,
che di fatto detiene i diritti, un Oscar, non mi risulta un ben
più prestigioso Meridiano. Chi si ricorda di Lucio Piccolo,
di Sinisgalli, di Cattafi? Della Margherita Guidacci? Il poeta
morto, contraddicendo forse Ezra Pound, è da noi normal-
mente oggetto di un periodo di oscurità più o meno lungo,
che in molti casi tende a diventare definitivo. Ben lo sapeva
Montale, che è stato un poeta anche ironico, e che predispo-
se, prima di morire, una sorta di caccia al tesoro, che affidò
alla sua ultima ispiratrice, Annalisa Cima, la quale ogni cin-
que anni doveva aprire una busta che conteneva degli inediti.
Così per alcuni anni, ogni cinque anni, Montale ritornava in
vita, era presente, si faceva sentire, era quasi come se non fosse
morto. Ma non tutti sono così previdenti.
La previdenza di Montale è una dimostrazione del fatto che
tuttavia anche dopo la morte non tutto è affidato al caso, che
anche in questa circostanza il poeta può fare qualcosa per non
entrare o restare in ombra e che, più in generale, lasciare degli
eredi è indispensabile, anche se capita purtroppo che gli eredi
di sangue approfittino della scomparsa del caro e famoso estin-
to per regolare in silenzio dei conti lasciati in sospeso, magari
impedendo l’accesso all’archivio che racchiude preziose testi-
monianze e manoscritti inediti. Per contro, ci sono vedove che,
loro sì, hanno vissuto fino ad allora una vita nell’ombra, spes-
so sfruttate come segretarie e soffocate dall’illustre coniuge, le
quali, dopo la sua dipartita, diventano attivissime e arrivano a
vivere finalmente una gloria in prima persona, pur sempre glo-
ria riflessa, ma anche illuminata da qualche riflettore. A volte
le vedove sono due, una ufficiale e una clandestina, che si con-
tendono la fama del morto, il quale però in genere, non aven-
do scelto in vita, prudentemente, fra l’una e l’altra, ha pensato,
sempre per prudenza, che fosse più sicuro e più facile che tut-
to il prezioso materiale che lo riguardava restasse affidato alla
protezione dei lari domestici e quindi anche dopo la morte la
lotta fra la vera e la pretesa vedova rimane una lotta impari,
ancorché questa concorrenza, e qualche pettegolezzo, possano
alimentare quelle maldicenze che della fama sono l’auspicabile
coronamento. Si dà poi anche il caso del poeta la cui fama era
in parte dovuta all’esercizio di un potere che gli consentiva di
elargire benefici a una vasta schiera di cortigiani: in questo caso
la sua morte sarà seguita dal dispettoso silenzio di coloro che
hanno visto venir meno una disponibile mangiatoia poetica.
Ci sono tuttavia, in questo rapporto fra il poeta e la morte,
come sempre, anche vistose eccezioni, anzi vistosi rovescia-
menti: nessuna fama in vita e grande fama dopo la morte. La
prima di queste eccezioni cui viene fatto di riferirsi è quella
di Antonia Pozzi, la quale non aveva soltanto rinunciato alla
fama, non avendo mai pubblicato, bensì alla stessa vita, ma
la cui poesia oggi travalica il ristretto gruppo degli specialisti
per arrivare eccezionalmente a un pubblico relativamente va-
sto. La sua vicenda fa in qualche modo pensare a quella della
Dickinson, che a sua volta non pubblicò mai in vita (anche
se sembra che avrebbe voluto farlo, ma non ci riuscì), visse
da reclusa e oggi è una delle poetesse più famose al mondo.
Un’altra eccezione è quella di Alda Merini, che anche dopo la
morte continua a essere letta, pubblicata, citata e a fare noti-
zia. Anche nel caso di Alda Merini non si può dire che avesse
cercato la Fama: sono stati gli altri a cucirgliela addosso. In
lei c’erano gli elementi per farne un personaggio e ne è stato
fatto un personaggio. Lei ci si prestava volentieri, perché era
sufficientemente istrionica, ma i suoi eccessi non erano finti.
Tuttavia, se la Pozzi non si fosse uccisa per un amore infeli-
ce, se suo padre non fosse stato una figura oppressiva e castran-
te, se la Dickinson non avesse vissuto chiusa nella sua stanza
vestita di bianco come una suora della poesia, se la Merini non
avesse pubblicato una sorta di diario del periodo di reclusio-
ne in manicomio pochi anni dopo l’approvazione della legge
Basaglia, la loro poesia avrebbe destato, desterebbe oggi altret-
tanta attenzione? Lo stesso si può dire per un’altra poetessa
suicida, Sylvia Plath. Allora ci si può chiedere: la poesia è un
testo? solo un testo? o vale in quanto è la voce di un’anima? la
traduzione in linguaggio di un’avventura umana?
Infinite domande suscita dunque il tema dei poeti in om-
bra. Un tema pressoché infinito, perché si pone da tante di-
verse angolazioni.
Certo oggi viviamo in un’epoca in cui il personaggio conta
spesso più di un testo. E allora molti che vogliono acquistare
fama di poeti cercano, più che di lavorare sulla scrittura, quel
personaggio di inventarselo. E così ecco quello che finge di
essere un barbone e vive in una baracca, quello che si mette un
cappello di paglia uguale a quello di Hemingway, quello che
professa a gran voce di voler restare in ombra e acquista per ciò
stesso grande visibilità.
Ci si può chiedere anche: oggi in che cosa consiste la fama
di un poeta? Si tratta di un giudizio di valore letterario o è
sempre di più un’immagine che si forma in un caleidoscopio
di continuo roteante davanti ai nostri occhi?
Questi due aspetti per ora rimangono ancora un po’ sepa-
rati, ma è evidente che sta sempre più venendo meno il riferi-
mento di un giudizio critico sicuro, affidabile, come accadeva
ancora qualche decina di anni fa, per cui chi scriveva poteva
dirsi che, se il suo lavoro fosse stato preso in considerazione
da tale o tal’altro critico, egli avrebbe potuto legittimamente
aspirare a ottenere un suo posto, più o meno importante, nel
panorama letterario e questo panorama letterario si sarebbe
magari dilatato fino a divenire storia della letteratura. Oggi
è sempre meno così, il riferimento critico è diventato sem-
pre più vago, casuale, inconsistente, sostituito spesso com’è da
amicizie e appartenenze, da recensioni ottenute in cambio di
favori, mentre, in una sorta di circo barnum senza controllo
e in continua espansione in cui tutto è sovraesposto, restare
in ombra viene considerato sempre più penalizzante. Perciò
poeti e aspiranti poeti fanno di tutto, per lo più, per acquistare
una fama che non sempre corrisponde a effettivi meriti in una
società dove il successo sui social, che non può essere certo
garanzia di qualità, ingolosisce anche i grandi editori i quali, a
loro volta, pensano spesso più a vendere che a fare cultura. Ed
ecco allora che si mette in moto tutto un sistema di riferimenti
che va dai premi, ai reading, ai festival, alla cronaca e alle varie
apparizioni sui media, soprattutto in quella sorta di salotti che
sono i social: un’attività che richiede da parte dell’interessato
grande impegno di tempo e di energia, così che forse poco
ne resta per la letteratura, e anche una vocazione, più che da
poeta, da promoter, da manager, da addetto stampa. È vero
che anche in passato i poeti, anche i più grandi, frequentavano
i Salotti, ma erano salotti dove, in un sol colpo, si trovavano
riunite le più belle teste dell’epoca e dove si esercitava ad altis-
simo livello l’arte della conversazione. Dagli scambi sui social
deriva invece un certo scadimento di qualità di tanta produ-
zione poetica attuale, un appiattimento verso il basso e perfino
un imbarbarimento della lingua, e soprattutto un’inflazione di
scriventi che si arrogano un titolo di poeta a cui non dovreb-
bero poter pretendere e si impadroniscono di piccole o grandi
posizioni di potere per farlo valere.
D’altra parte questa smania, da parte di persone tutto som-
mato comuni, di emergere, di avere successo, di farsi un nome
attraverso un atto massimamente individuale come la crea-
zione poetica, forse la si può anche capire – volendo trovare
una giustificazione al fenomeno – come una reazione un po’
squallida a un mondo in cui sempre di più assistiamo all’o-
mologazione, alla progressiva cancellazione della persona, non
più individuo ma mero numero, mero codice da digitalizzare.
Chi sono quindi in conclusione oggi i poeti in ombra?
Sono i poeti che per carattere, sfortuna o incapacità di pro-
muoversi non riescono a diventare famosi. Conosco anche
chi, forse un po’ snobisticamente, non vuole diventarlo. A
volte – raramente – si tratta di un rifiuto inconscio. Un caso
emblematico è quello della grande poetessa romana Fernanda
Romagnoli, morta nel 1986 all’età di 70 anni, che raggiunse
tardivamente la fama solo nel 1980, una fama che subito si
spense con la sua morte, come una stella filante, e che, in dieci
anni di faticosi tentativi editoriali, cercai di ravvivare, riuscen-
doci solo in parte, nel 2003, facendola finalmente ripubblicare
da Scheiwiller. Si è trattato però per me più che di lottare con
gli editori, di lottare con la sua anima, con il suo desiderio di
autopunizione, di espiazione per quella che il suo inconscio
certo considerava una colpa, un venir meno ai doveri di una
vita banale di casalinga dedita solo alla famiglia.
Ma ci sono anche poeti in ombra perché per loro essere
in ombra è un destino, magari un non facile destino, forse
addirittura una consapevole scelta. Poeti di cui non farò qui i
nomi, e che mi paiono spesso i migliori che si possano leggere
fra quelli operanti oggi, uno in realtà – di lui farò il nome –
recentemente scomparso, Sandro Boccardi, musicologo, con-
tadino della Bassa Padana nel cuore, che aveva impersonato
Bach in un documentario indossando una parrucca di boccoli
bianchi che al compositore tedesco lo faceva assomigliare mol-
tissimo, come venisse anche lui dal lontano Settecento, autore
di una poesia dal linguaggio attualissimo nella forma musicale
del sonetto. Questi poeti “in ombra” hanno in comune il fatto
di essere, loro sì, quella cosa rara che è un poeta vero.
Che cosa li distingue? Lo starsene appartati, lo scrivere una
poesia metafisica, che riflette cioè un’idea alta dei valori dello
spirito – il che certo oggi è un andare controcorrente e già
questo ne fa dei diversi, degli isolati – , essere quindi “fuori
moda”, incuranti di gruppi e ideologie, privilegiare il silen-
zio esterno e il silenzio interiore, la lettura come ginnastica
dell’anima, la musica, il bosco come natura e come metafora.
Poeti che, da quella prospettiva, scendendo in profondità, ri-
tengono che si possa dar voce anche al dolore, allo spasimo,
all’urlo di Munch, soprattutto alla pietà per la follia dell’uo-
mo che, come una metastasi, divora la nostra vita. Poeti che
hanno una giusta stima di sé unita a una giusta modestia e
sanno mettersi in rapporto con gli spiriti del mondo per lo
più ostili all’uomo, come credevano gli antichi sciamani, poeti
che sono ancora essi stessi un po’ sciamani e credono di poter
dare conto – muovendo dal silenzio – anche del fragore, della
distruzione, dell’allontanamento dalle leggi della Natura, della
progressiva cementificazione della terra, della desertificazione
e delle frane, dell’imbarbarimento della musica, dello snatura-
mento della virtù, dell’annientamento delle anime e dei corpi,
del grottesco e tragico orrore della miseria fisica e spirituale,
di quella angosciante realtà che troviamo nei Canti Civili di
un poeta non accademico, non inserito nel sistema, e pertan-
to vero poeta, poeta in ombra quant’altri mai, e per questo
dimenticato, e per questo da riscoprire e da ricordare, come
appunto è stato Nicola Ghiglione.

 

 

COVER_limoni_2023
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Roberto Caracci

“Le crepe del paradiso – Eclissi di un’infanzia”

 

 

Roberto Caracci narratore e saggista, vive e insegna a Milano. Ha pubblicato volumi di narrativa – “L’ingorgo”, (Rebellato, 1984), “Le radici del silenzio”, (Ati, 2007) – e con Moretti&Vitali il saggio di critica poetica “Epifanie del quotidiano: Veli e bagliori nella poesia italiana contemporanea (2010). Quindi, per lo stesso editore, il saggio “Il Ruggito del Grillo. Cronaca semiseria del comico tribuno” (2013); lo studio filosofico “Le maschere del senso. Come inganniamo il tempo, la morte, lo stupore di esistere” (2016) e il romanzo “La cella della dea” (2018). Prima di “Le crepe del paradiso – Eclissi di un’infanzia”, sempre per Moretti&Vitali, ha pubblicato nel 2020 il romanzo “Preludi&Deliri” (Pentagora editore).

Si occupa di filosofia e psicoanalisi. Ha tenuto conferenze sulla Narratologia del sogno e sul pensiero moderno, da Bergson a Nietzsche, da Freud a Severino. Dirige dal 1992 il Salotto Caracci, cenacolo letterario-filosofico a Milano.

 

 

Con “Le crepe del paradiso – Eclissi di un’infanzia”, Roberto Caracci affronta sul piano narrativo le tematiche esplorate nei suoi studi filosofici, a partire da “Le maschere del senso. Come inganniamo il tempo, la morte, lo stupore dell’esistere”. Perché è la morte il fatto con cui si confronta il piccolo chierichetto Alessio, seguito nella sua formazione all’esistere dagli otto ai dodici anni. Ma, come lo stesso autore ha avuto modo di dire in diversi interventi, questo non è un romanzo filosofico, ma un’opera di pura immaginazione, in cui il racconto, le situazioni e i personaggi veicolano domande e risposte attraverso il loro accadere. Ed è un accadere di grande varietà.

La vicenda del piccolo Alessio, pupillo di don Luciano, che la perpetua rumena Xenia dice assomigliare a Papa Pacelli, è infatti un viaggio attraverso i morti. In una famiglia che una volta in Italia era tipica – educazione cattolicissima e profluvio di nonni, nonne, zie e prozii -, il giovane protagonista ha a che fare con moribondi che muoiono, che lasciano il loro corpo ai vivi: corpi muti, refrattari, che non possono rispondere all’unica domanda che per Alessio merita una risposta: “Cosa c’è dopo? C’è l’immortalità di cui mi parla Don Luciano o non c’è nulla?”.

Potrebbe essere un viaggio dolente, ma l’immaginazione dell’autore lo rende picaresco grazie all’uso di una categoria dello stile poco frequentata dalla letteratura italiana: il grottesco. Il capitolo dedicato allo zoppo zio Tonino, sostenitore pagano della cremazione, che in salotto tiene una volpe impagliata e l’urna con le ceneri dell’amato cane da caccia, è l’incursione in un territorio in cui lo straniamento e l’eccessivo creano la tensione tra il messaggio e lo stile. La nonna immacolata è invece protagonista di un dialogo tra una morta e un vivo – suo nipote Alessio – che non è solo la rappresentazione della potenza immaginativa dell’infanzia, ma un autentico dialogo coi morti come lo avrebbe potuto scrivere Luciano. Un gioco dell’esistenza.

“Avevo avuto altre volte la sensazione di giocare con il fuoco. Come se la potenza del mio immaginario avesse la facoltà di sfuggirmi di mano e di sopraffarmi. Mi percepivo dento un cortocircuito e mi dicevo che ero in tempo per tornare indietro, mi ammonivo a non lasciarmi andare al gioco perverso, ad uscire dal tunnel prima che fosse tardi. Il gioco è bello non solo quando dura poco, aveva concordato mio padre ma quando soprattutto riesci ad uscirne”.

E per uscirne Alessio dovrà, nell’imprevedibile capitolo conclusivo, fare i conti con l’alternativa tra vocazione e scelta, tra l’essere chiamati da e verso qualcosa che ci prescinde e l’essere chiamati a sé stessi.

“Potrei non essere nato e neanche dunque morire. Potrei avere sognato la mia nascita, immaginato la mia morte, ma dentro la bolla di una menzogna colossale, la stessa di questa strana messa del venerdì santo, dell’assemblea dei fedeli, dello strampalato discorso di don Luciano”.

Le crepe nel paradiso di Alessio, ci dice Caracci in questo romanzo laterale, sono quelle con cui dobbiamo fare i conti tutti noi, perché l’infanzia eclissa per ognuno.

 

Riporto l’incipit del romanzo, non a caso intitolato “Il principio della fine”.

 

Tutto cominciò, e cominciò a finire, quando non mi rimase nulla di quello con cui ero partito, il bagaglio che mi aveva accompagnato nel viaggio, gli effetti personali divenuti da immemorabile tempo le appendici, le vecchie pelli o le inutili zavorre ci ciò che ero. Tutto cominciò, insomma, e cominciò a volgere alla fine, quando sui palmi aperti delle mani, all’alba, non avvertii più nemmeno la sensazione dolce, prensile, pruriginosa, di ciò che si era materializzato nel corso della notte, nel magico pozzo dei sogni, e che ora evaporava. Monete, gioielli, tesori ritrovati nelle sabbie di oasi esotiche, o sottratti a grandi magazzini di metropoli, soffiati alle banche o agli uffici postali. Ma anche mani protese di amici, conosciuti per caso lungo le affollate strade del mondo, e seni di fanciulle e di giovani donne, o labbra dall’umore tiepido che ancora bagnava le mie dita. Non c’era più niente da stringere, i miei palmi rimanevano aperti e vuoti, le dita appena un po’ incurvate, pronte a chiudersi su quanto le alte maree dei sogni si compiacevano di depositare tra le mie mani spalancate, simili a foglie carnivore in attesa del contatto di uno scarabeo o della più leggiadra delle libellule per accartocciarsi sulla preda e stritolarla.

 

Foto della cerimonia della premiazione al settimo concorso internazionale Le Grazie – Portovenere – La Baia dell’Arte, per il romanzo “Le crepe del paradiso”, Moretti&Vitali 2001, primo premio della giuria (cliccare sull’immagine per ingrandirla):

 

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Intervista per Rai Cultura

Pubblico qui la video intervista per Rai Cultura sul mio nuovo libro “Parole per la testa!” edito da Feltrinelli Kids con le illustrazioni di Allegra Agliardi. Un modo allegro e divertente per spiegare i modi di dire, per usare con più consapevolezza la nostra lingua e per scoprire in modo semplice come funziona. Spero vi piaccia!

 

CLICCA QUI PER VEDERE IL VIDEO

 

 

L’articolo:

 

In Parole per la testa! Da dove arrivano i modi di dire? pubblicato da Feltrinelli Kids con le illustrazioni di Allegra Agliardi, Donatella Bisutti parte dalle metafore che sono alla base dei modi di dire. La metafora ha anche un aspetto giocoso e suggerisce che tutte le cose del mondo sono in comunicazione tra loro. Esplorando e spiegando le origini dei modi di dire e il loro meccanismo, Bisutti risale alla tradizione contadina e ai paragoni con il mondo animale vegetale di cui è intessuto ancora oggi il nostro linguaggio. Un libro per usare con più consapevolezza la nostra lingua e per scoprire in modo semplice e divertente come funziona.Imodi di dire non sono metafore che ci parlano della bellezza, bensì della vita di tutti i giorni, con tutti i suoi guai e le cose buffe che possono accadere.

 

Donatella Bisutti (1948), poetessa, narratrice, saggista, ha pubblicato tra l’altro la raccolta Inganno Ottico (Guanda Società di Poesia, 1985, premio Montale per l’inedito), il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri (Bompiani, 1997), il poema ispirato all’Apocalisse, recitato anche in forma teatrale, Colui che viene (Interlinea, 2002, premi Camposampiero e Davide Maria Turoldo per la poesia di ispirazione religiosa), l’antologia The Game – Poems 1985-2005 (Gradiva, New York 2007), e ha tradotto opere dei poeti Bernard Noël e Edmond Jabès per la collana dello Specchio Mondadori. È nel comitato di redazione della rivista “Poesia” (Crocetti Editore), ha fondato e dirige la rivista “Poesia e Spiritualità” (viennepierre edizioni) e da anni tiene corsi di scrittura e laboratori di poesia nelle scuole. Con Feltrinelli ha pubblicato L’Albero delle Parole (1979, 2002), Le parole magiche (2008), La poesia salva la vita (2009), La poesia è un orecchio. Leggiamo i nostri grandi poeti da Leopardi ai contemporanei (2012) e Parole per la testa! Da dove vengono i modi di dire? (2022).

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Presentazione di “Ogni spina ha la sua rosa” alla biblioteca Sormani

Cari Amici,

 

anche se mi sono trasferita a Genova, non voglio certo dimenticare i miei amici milanesi di una vita, voglio anzi costruire un ponte tra Genova e Milano favorendo gli scambi e l’interazione fra queste due città, che amo entrambe, ciascuna con la sua specificità, ma ciascuna territorio privilegiato della Poesia.

 

Spero quindi di rivedervi, dopo una lunga drammatica parentesi, dove usavo incontrarvi: nell’amata sede della Bibiloteca Sormani in corso di Porta Vittoria 6, a Milano, che ci ha visto tante volte riuniti, giovedì 6 ottobre alle ore 17,30. E spero che sarà un’occasione per riabbracciarci.

 

A presto allora!

 

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Incontro con i poeti di Condividendo Poesia

Cari Amici sabato scorso 26 marzo ho tenuto un incontro a Genova, alla Stanza della Poesia collegata al Festival Parole Spalancate di Claudio Pozzani, con alcuni poeti del gruppo Condividendo Poesia coordinato da Benedetto Ghielmi di Milano. Gli intervenuti erano venuti da diverse città, anche lontane: Pisa Padova Cuneo Varese. Si è trattato di un incontro molto simpatico in cui abbiamo analizzato insieme alcuni testi proposti dai partecipanti e parlato naturalmente di poesia, in particolare del senso che può avere oggi la poesia in tempo di guerra e di pandemia. Ringrazio tutti gli intervenuti per questa loro partecipazione e spero che l’incontro potrà ripetersi anche altrove.

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Filastrocche per bambini di Donatella Bisutti


Una recensione al libro Storie che finiscono male
uscita su Italian Poetry Review

La Professoressa di Anglistica dell’Università di Milano Francesca Orestano, che prima della pandemia aveva organizzato su questo libro per ragazzi un convegno internazionale nella sua facoltà, ha pubblicato una lunga e dettagliata recensione in inglese sul numero XV, di recente pubblicazione, della prestigiosa rivista che esce a cura della Columbia University, della Fordham University e The Italian Academy americana.


(Vedi il PDF da pag. 9)

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Le emozioni della poesia

Ripubblico qui il mio saggio contenuto nel libro, relativo al rapporto fra le emozioni e la poesia:

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DONATELLA BISUTTI

LE EMOZIONI DELLA POESIA

  Che cosa sono le emozioni?  Possiamo dire che le emozioni sono il modo in cui interagiamo con  il mondo, cioè con tutto ciò che sta fuori di noi.  Un modo che non è gestito dalla parte razionale del nostro cervello, ma innanzitutto dal nostro corpo. Il rapporto fra corpo ed emozioni è strettissimo. Le sensazioni sono il modo in cui il nostro corpo comunica con la nostra mente. Se proviamo una sensazione piacevole, avremo un’emozione positiva, se invece è spiacevole, la nostra emozione sarà negativa.

  I nostri stati d’animo saranno la risposta a queste emozioni positive o negative: proveremo allora allegria o tristezza, malinconia o gioia, entusiasmo o dolore e così via. E quando gli stati d’animo durano più a lungo diventano sentimenti. Tutto questo viene elaborato dalla nostra mente soltanto in un secondo tempo. Il ripetersi di un’emozione gradevole farà nascere in noi attaccamento e amore  per quella cosa o persona che l’ha provocata; il ripetersi di un’emozione sgradevole farà nascere  al contrario un sentimento di antipatia, disgusto, rancore, odio.

   Si dice che  l’organo che gestisce e vive intensamente le nostre emozioni è il nostro cuore, ma prima di arrivare al cuore le emozioni devono passare per i nostri cinque sensi. Se non avessimo nessuno dei nostri sensi, non potremmo provare nessuna emozione, il mondo per noi non esisterebbe e la nostra mente potrebbe tutt’al più funzionare come un computer.

   I nostri sensi, soprattutto la vista e l’udito, ma anche  l’olfatto e il gusto e  tutta la superficie della nostra pelle, ricevono  degli stimoli dall’esterno e  le emozioni sono il loro modo di reagire a questi stimoli. Dobbiamo imparare a non considerare il nostro corpo solo come qualcosa che ci fa stare bene o ci fa stare male, qualcosa che  ci portiamo in giro e che ci serve come uno strumento con cui possiamo  mangiarci un panino o scalare una montagna, qualcosa che è come un oggetto che possiamo vestire, adornare, abbellire per mostrarlo agli altri e magari affascinarli. Non è così, o non è soltanto così. Il nostro corpo non è solo uno strumento e non è un oggetto: è  anche un soggetto che dice “io” alla stessa stregua della nostra mente. Per un bambino molto piccolo il corpo è il solo modo di conoscere il mondo. Lo conosce toccando e mettendosi gli oggetti in bocca, facendoli cadere per terra, rompendoli. Il nostro corpo è dunque qualcuno che impara a conoscere il mondo a modo suo, e questo  modo lo dobbiamo considerare anche più importante di quello che consiste nel tradurlo in concetti con gli strumenti logici del nostro cervello. La felicità infatti ci può venire solo da questa conoscenza attraverso il corpo, cioè da un’interazione emozionale  con gli altri e con l’ambiente che ci circonda, non dall’uso di un computer. Se noi restringiamo la nostra conoscenza del mondo a un computer  è difficile che possiamo essere felici. Vedere per esempio un bosco in un’immagine, anche se perfetta, non sarà mai come attraversarlo a piedi sentendo intorno a noi  il frusciare dei rami, la carezza dell’aria, l’odore del muschio e dei funghi nascosti, il mistero delle ombre profonde, il vibrare dell’erba al passaggio furtivo di uno scoiattolo, il mormorio di un ruscello che lo percorre. E insieme  la sensazione di  fatica mentre camminiamo, l’attenzione che dobbiamo avere nel muovere i passi  fra le pietre e il terriccio del sentiero e magari l’indolenzimento dei nostri piedi. Senza  questa serie di sensazioni e di emozioni che da queste sensazioni derivano non avremo mai conosciuto il bosco. E invece in questo modo il bosco si imprimerà così profondamente prima di tutto nella memoria del nostro corpo che diventerà in qualche modo parte di noi  e di questa conoscenza che ne abbiamo avuto ci potremo ricordare anche a distanza di anni e riprovare quel senso di felicità, di stupore, di meraviglia e magari anche un po’ di paura  che abbiamo provato allora.  Questo arricchisce la nostra vita.

   Certo possiamo provare delle emozioni anche vedendo  delle immagini, un film, un video, però sono emozioni incomplete, alle quali il nostro corpo partecipa poco e per questo si tratta di emozioni che in genere  svaniscono rapidamente perché non ci appartengono davvero, non sono davvero “nostre”, bensì sono emozioni create da altri, che noi per qualche attimo prendiamo a prestito. Dobbiamo stare attenti a non lasciare troppo spazio a questo tipo di emozioni perché sono corpi estranei che si  installano, invadono la nostra mente senza passare per i nostri sensi e la abituano a vivere di surrogati di emozioni reali che sono come un cattivo cibo, a vivere una vita che non è la nostra. Queste emozioni artificiali non ci danno dei ricordi veramente nostri ma ci manipolano, ci condizionano, mentre il nostro corpo rimane inattivo , quasi immobile, quasi inutile e, lì seduto, per compensare la sua frustrazione spesso  si nutre in maniera compulsiva di altro cattivo cibo, finché diventa obeso e si ammala.  Più ci allontaniamo da emozioni vere,  più la nostra vita diventa simile a quella di un robot che sa tutto, prevede tutto, organizza tutto, ma non sente niente. 

   Quanto le emozioni abbiano a che fare con il nostro corpo lo si può vedere facilmente. Infatti ci sono emozioni che ci fanno diventare le guance rosse come pomodori, oppure altre che ci fanno diventare bianchi come stracci. Emozioni che ci fanno tremare le mani, oppure drizzare i capelli in testa. Altre che ci fanno balbettare, altre ancora che ci prosciugano la saliva, o addirittura ci impediscono di parlare. Emozioni che ci fanno ridere irrefrenabilmente, oppure piangere a dirotto. E ancora: ci fanno battere i denti, ci fanno sudare, ci fanno venire la pelle d’oca, oppure il singhiozzo. Quanti strani effetti ci può fare un’emozione! Può farci ballare, saltare, ci può far emettere una quantità di suoni diversi: oooh se vediamo qualcosa di strano e di meraviglioso, ahi se ci fa male da qualche parte, aah se qualcosa ci fa paura.   

    Le emozioni per definizione ci coinvolgono, le proviamo quando non possiamo restare indifferenti. Qualcosa di noioso non ci dà invece nessuna emozione, a meno di non voler considerare un’emozione anche uno sbadiglio. Senza emozioni la nostra vita sarebbe un seguito di sbadigli.

    E’ vero però che non tutti sentono le emozioni  con la stessa intensità, anzi ci sono alcune persone che non le sentono affatto. Il modo in cui una persona sente le emozioni  lo chiamiamo “carattere”. E’ come se ciascuno di noi avesse dentro  uno speciale termometro che misura le emozioni come si misura la febbre. Ci sono persone in cui la febbre non sale mai, questo termometro ce l’hanno sempre basso, segna magari 8 o 9 gradi: si dirà allora che hanno un “carattere freddo”. Sono simili a dei frigoriferi: qualsiasi cosa gli metti dentro si raffredda o, se viene inserita nel reparto freezer, addirittura si  gela. Qualsiasi cosa gli succeda, queste persone non danno mai segni di emozione: rimangono impassibili.  Questa è da alcuni considerata una grande qualità. In effetti va molto bene se uno vuol diventare uno 007 che affronta senza batter ciglio qualsiasi pericolo. Però queste persone hanno dei rapporti difficili con gli altri: gli altri sentono questo freddo che loro hanno addosso e subito hanno voglia di infilarsi un golfino e siccome devono andare a prenderlo, si allontanano con una scusa e poi incontrano qualche amico per strada e non tornano più. D’altra parte  ci sono anche persone il cui termometro sale velocissimo e diventa subito bollente: queste persone hanno sempre emozioni esagerate, per esempio gli basta pochissimo per arrabbiarsi, si arrabbiano per delle stupidaggini, magari perché un’altra macchina va più veloce di loro e li sorpassa o perché qualcuno occupa prima di loro un parcheggio, oppure si mettono subito a piangere se perdono una partita a calcetto.

    Sono persone che si fanno travolgere dalle loro emozioni: è come se andassero a cavallo e quando il cavallo si mette a un galoppo sfrenato non riescono a trattenerlo, cadono dalla sella e qualche volta possono anche rompersi la testa. Anche queste persone hanno pochi amici perché fanno paura o sono fastidiose per gli altri. Però ci sono anche quelli che hanno cosi paura che la temperatura del loro termometro si alzi troppo e gli faccia venire la febbre che appena la sentono salire subito vanno a farsi una doccia e così si raffreddano e il termometro scende. Magari sono proprio le stesse persone che ci sembrano impassibili. Ma a forza di passare dal caldo al freddo alla fine si sentono male e devono andare dal dottore  Esistono infatti dei dottori delle emozioni che si chiamano psicoanalisti o psicoterapeuti , i quali aiutano queste persone a regolare i loro termometri. Un’operazione tuttavia lunga e faticosa.

   Ma il punto è proprio questo: che cosa dobbiamo fare con le nostre emozioni se sono troppo forti? Dobbiamo lasciarci trascinare oppure puntare i piedi per non essere trascinati?

   Abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni come vivere al meglio le nostre emozioni. Un assessore alla cultura  nel corso di un recente convegno cui ho partecipato si chiedeva: “Un’educazione all’emozione è possibile?” Io credo di sì: non solo  è possibile,  ma è necessaria.

   Finora ciascuno era lasciato ad arrangiarsi da solo. Questo può creare  come abbiamo visto molti problemi, molte difficoltà. C’è chi ha la vita rovinata  per via di una cattiva gestione delle emozioni, soprattutto nei rapporti con gli altri, specialmente nei rapporti d’amore, che di emozioni ce ne danno tantissime. La gelosia, la rabbia e l’odio sono emozioni che possiamo provare facilmente e da cui spesso non sappiamo difenderci. 

    L’emozione è una forma di energia, un aumento di energia dentro di noi. Ma questa energia abbiamo visto che non ha sempre un segno positivo: dipende da quello che ci succede. Ci sono energie con il segno meno, energie negative. Sono queste soprattutto che ci mettono a rischio, benché a volte anche un eccesso di entusiasmo possa diminuire la nostra attenzione e farci andare a sbattere contro un muro. Ma certamente sono le energie negative a metterci più in difficoltà:  quelle che  si sprigionano da una paura, un dolore, una perdita, un pericolo.  

     Tuttavia noi non dobbiamo cercare di cancellare le nostre emozioni per far scendere il termometro. Non dobbiamo bloccare la nostra capacità di emozionarci. Le emozioni sono molto importanti. Sono loro a farci sentire vivi. Le emozioni sono i movimenti del nostro cuore. Ed è il cuore che ci fa vivere. Non siamo solo cervello.“Cuore” significa la nostra immaginazione, la nostra fantasia, i nostri sentimenti, sogni, desideri: non possiamo rinunciare a tutto questo senza perdere la ricchezza della nostra vita.

  Che cosa  fare allora con le nostre emozioni? Educazione all’emozione vuol dire non lasciarsi andare in balia delle emozioni perché un’emozione che sia fuori controllo può distruggerci. Vuol dire accettare di viverle, ma anche capire che questa energia possiamo trasformarla :in qualcosa che ci aiuti a vivere meglio.

  Abbiamo visto che l’emozione è un movimento che va dall’esterno, da ciò che accade al di fuori  di noi, verso il nostro interno: in questo movimento noi siamo in un primo momento passivi, lo subiamo come un’energia che non ha avuto origine in noi. Ma se  decidiamo di portare consapevolmente questa energia verso l’esterno volgendola dal negativo al positivo, dal segno meno al segno più, ecco che avremo ripreso il controllo e saremo diventati dei soggetti attivi in grado di utilizzare al meglio il suo potenziale. L’energia infatti di per sé non ha alcun segno: siamo noi  che possiamo renderla positiva o negativa . E in questo consiste la nostra libertà e la capacità di guidare verso il successo la nostra vita. Non butteremo via tutto quel potenziale, vi pare?

   E’ a questo punto che la poesia può indicarci la giusta direzione. A questo rapporto fra poesia ed emozione ho dedicato anni di studi e di riflessioni e diversi libri, aprendo la strada, credo, a un nuovo approccio con la poesia.

  La poesia può essere la chiave più preziosa per un’educazione all’emozione. Perché? Perché anche la poesia ha a che fare con le emozioni. Una poesia che ci  trasmetta solo concetti non è una poesia degna di questo nome. La poesia non è un saggio, una narrazione, un trattato di filosofia o di scienza: attraverso le parole essa ci vuole trasmettere un’emozione. Il significato della poesia non può essere compreso attraverso la pura e semplice spiegazione di quello che le sue parole “vogliono dire” – allora perché si dovrebbe scrivere una poesia? Basterebbe scrivere in prosa! E come ce la trasmette l’emozione? attraverso delle sensazioni, proprio come accade nella nostra esperienza. Anche la poesia è in questo senso una forma di esperienza: ci trasmette infatti anch’essa delle sensazioni. Ci trasmette l’emozione del poeta non raccontandola, ma creando le condizioni per cui la possiamo provare direttamente anche noi insieme a lui.  Il suo è l’unico linguaggio verbale capace di trasmettere un’esperienza, proprio perché si serve delle sensazioni.  Perciò ci permette di esprimere le nostre emozioni  partendo da ciò che le ha originate, sia che leggiamo sia che scriviamo. Solo così esse diventano trasmissibili, e il fatto di poterle trasmettere è qualcosa di essenziale. Anche la poesia infatti trasforma le sensazioni in stati d’animo, perché anche la poesia, prima che per la mente e per il cuore, passa per il corpo. Questo potrà sembrare strano a chi ha sempre pensato alla poesia come a qualcosa di etereo, spirituale e smaterializzato: una concezione che affonda le sue radici in una lunga tradizione retorica che ne ha completamente travisato  la natura. Infatti la poesia è linguaggio e il linguaggio dove nasce? Nel corpo e dal corpo. Il linguaggio del corpo, fatto di semplici suoni, è il linguaggio originario, quello che ogni bambino piccolo riscopre. Le più antiche parole della lingua ne mantengono  le tracce  perché spesso la loro etimologia ormai dimenticata è onomatopeica cioè riproduce dei suoni della  natura, degli animali, degli oggetti.  O anche dei ritmi, dei movimenti. Abbiamo ragione di pensare che il linguaggio abbia avuto origine dalle emozioni e sia nato per esprimere emozioni. Ne rimangono tracce nelle esclamazioni che riempiono ancora anche le pagine attualissime dei fumetti.

   La poesia è ancora oggi un “linguaggio del corpo”. E’ l’unica forma di scrittura che abbia conservato questo rapporto preciso ed essenziale con il corpo, un linguaggio fatto di suoni, di onomatopee, di ritmi e soprattutto di sinestesia:  La poesia è un orecchio , come dice il titolo del mio libro uscito da Feltrinelli nel 2012 , che recupera attraverso un ascolto dei suoni e una “lettura emozionale” i grandi classici della nostra poesia, da Leopardi a Luzi. Questo libro contiene una analisi accurata, nei singoli testi, dei modi e delle caratteristiche di questo linguaggio sensoriale/emozionale e ad esso rinvio per entrare in modo più approfondito nella specificità del “linguaggio del corpo” che contraddistingue la poesia. Farò solo un esempio prendendo spunto da una poesia che avevo scelto nel libro, di Corrado Pavolini, intitolata Ragazzo negro, e che riporto qui:

Qua la mano, fratello.

Come amo il tuo spaurito cuore,

la forma del tuo cranio,

il tuo paradiso perduto.

Con le tue stesse spazzole

curvo su eguali scarpe

lucido insieme a te

con servil cura, sudando,

il mio terrore dei bianchi,

guardo riflesso nel cuoio

questo me maledetto.

Allegro è il sole, cantano

uccelli e clakson e noi

siamo neri, fratello.

     Vorrei soffermarmi sul finale, sugli ultimi tre versi. Sulla singolare musica che risulta dal mescolarsi delle note indisponenti e “innaturali” dei clacson alle note allegre  del cinguettio degli uccelli, che invece ci parlano  di sole e di vita: da questo mescolarsi ma anche contrapporsi risulta un canto allegro ma al tempo stesso un po’ stridente,  ed è proprio questo suono discorde a “dirci” lo “stridente”contrasto fra un ideale di fratellanza e una realtà di discriminazione. Tutto questo non è dichiarato, ci arriva solo attraverso la “sensazione” di un particolare tipo di suono, una sensazione di stridore, che si trasforma subito in emozione, trasmettendoci  l’esperienza di quell’assurdo malessere, quel senso di esclusione che prova il poeta: siamo lì con lui, e la proviamo anche noi, essa entra nel nostro cuore ben più profondamente che  se  ci fosse stata “spiegata”con tante parole. E’ così che funziona il linguaggio della poesia.

   Ma che cos’è la sinestesia?   Secondo l’etimologia, la sinestesia , che unisce  in una stessa immagine sensazioni diverse,  significa  “percepire insieme”  e quindi anche, per estensione, “mettere insieme”.  Sinestesia è dire per esempio “un suono freddo” (udito + tatto) o “ un rosso piccante” (vista + gusto). Sinestesia è, in senso lato, il linguaggio stesso della poesia, che non solo connette sensazioni di diversa provenienza, soprattutto colore e suono (diceva il grande poeta portoghese Texeira de Pascoaes:  “Il  suono è lo spirito del colore” ) , ma nelle metafore “mette insieme” le cose apparentemente più lontane. La scintilla che provoca questi cortocircuiti è però sempre l’intensità dell’emozione che il poeta ci vuole trasmettere.

  La poesia è quindi un Linguaggio delle Emozioni. che usa le parole in modo diverso da tutti gli altri linguaggi fatti di parole: le usacome se esse fossero soltanto sensazioni, suoni, colori, ritmi, forme. Le usa come un musicista usa le note e un pittore usa le matite e i pennelli. Le parole usate in questo modo sono quelle capaci di farci vivere un’emozione. Così una poesia ci fa vivere l’emozione del poeta che l’ha scritta. Essa diventerà anche la nostra emozione. E questa emozione sarà il suo vero e completo significato. Per questo la poesia è importante e necessaria alla

nostra vita: essa ci ricorda di continuo che non dobbiamo solo “ragionare” ma anche “sentire” . Naturalmente le “sensazioni” che la poesia ci trasmette sono immaginarie, cioè sollecitano i nostri sensi  attraverso l’immaginazione: le immagini che “vediamo” si formano nella nostra mente, così come i suoni  che essa evoca – suoni del traffico di una città, suono delle onde del mare, suoni dei canti degli uccelli – così come sono immaginari gli odori e i profumi e le sensazioni tattili che percepiamo, ma che non sono per questo meno “reali” in quanto esse agiscono “realmente” sulla nostra sfera psichica. In questo modo la lettura di una poesia diventa una “esperienza” e attraverso questa “esperienza” l’emozione che le ha dato origine rinasce e si trasmette, non raccontata, ma vissuta, condivisa tra il poeta e il lettore. La poesia ci insegna così anche a giocare con la nostra immaginazione, ad attivarla, a mettere nel testo del poeta qualcosa di nostro.

     La cosa più importante, riguardo a una “educazione all’emozione”, è questa possibilità che ha la poesia di trasmettere un’emozione in quanto tale, di condividerla.

La poesia ci insegna quindi prima di tutto che un’emozione si può esprimere,  e questo è il primo modo per diventare, da individui che subiscono passivamente,  soggetti attivi. Tutta l’energia che una emozione ci suscita non possiamo infatti tenercela dentro: come un pallone troppo gonfiato, essa rischia di farci “scoppiare”, crea un ingorgo che ci fa male. Dobbiamo esprimerla , riportandola fuori di noi, e non bastano per questo poche esclamazioni, ci vuole qualcosa di più articolato del limitarsi semplicemente a ridere e a piangere. Esprimerla vuole dire comunicarla agli altri, condividerla. Condividerla non è  la stessa cosa che raccontarla. La fisicità infatti non si  può raccontare, bisogna sperimentarla. Perciò la poesia con il suo linguaggio fatto di sensazioni corporali è l’unica che ci permette  di trasmettere agli altri le nostre sensazioni ed emozioni più profonde aprendo un varco in quel muro che separa noi umani uno dall’altro, quel muro di solitudine e di incomunicabilità che fece scrivere a Salvatore Quasimodo il famoso verso: “ Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole.”  Questo muro di separatezza non si può totalmente abbattere  ma  attraverso quel varco si  può magari infilare un braccio e stringere la mano di un altro che ci è vicino.

  Per lo stesso motivo scrivere noi stessi una poesia ci può aiutare, esprimendole e condividendole con gli altri,  a superare emozioni dolorose e in questo senso ci può “salvare la vita” come dice  il titolo di un altro mio libro, titolo ispirato alla vicenda reale dell’architetto Belgioioso che  riteneva di essere riuscito così a sopravvivere agli orrori del campo di concentramento nazista in cui era stato per anni rinchiuso.

   Ma c’è  un altro motivo per cui la poesia ci  può fare da maestra per un’educazione all’emozione. Infatti essa non si limita solo a farci esprimere e  condividere l’esperienza di un’emozione, ma la trasforma. La trasforma in un oggetto di bellezza,  cioè la singola poesia stessa : una poesia si propone infatti di realizzare, a partire da un’esperienza e da un’emozione, attraverso i suoni e le immagini, una perfezione di bellezza. Un “oggetto”  compiuto in sé secondo regole di composizione e di metrica, rime o assonanze,  ritmi  e sospensioni, simili a quelle di una partitura musicale. Una bella poesia può essere paragonata a una sonata, un poema a una sinfonia. La poesia per sua vocazione tende alla bellezza e quando la raggiunge è questo quel segno meno che si trasforma in più: un grumo di dolore che si trasforma in armonia, attraverso un atto di creatività. Chi scrive una poesia dà una forma alla sua emozione come un vasaio dà forma a un vaso.  

   Così facendo la poesia ci indica anche una strada  più ampia, come la stella polare ci indica la rotta verso nord: appunto la strada della creatività, anche al di fuori della poesia stessa: è questa anche più in generale la strada per  vivere bene le nostre emozioni  trasformandole in qualcosa di più grande, in un’armonia che non rimanga confinata nel nostro io ma si apra verso gli altri e doni loro qualcosa con cui possono a loro volta arricchire la loro vita. 

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